Michel Quoist

Non desiderare di vivere la vita di un altro, essa non è adatta a te. Il Padre ha preparato per ciascuno di noi una vita su misura; indossare quella degli altri sarebbe un errore, come se tu volessi indossare la giacca del tuo amico perchè vedi che su di lui sta perfettamente.

Angoscia

L’incompiutezza sostanziale dell’uomo, la sua imperfezione, il fallimento dei suoi tentativi di realizzarsi e  di costruire una società e un mondo migliori;

l’angoscia dell’uomo moderno di fronte a se stesso, alla propria vita, alla vita del mondo;

l’angoscia che intesse subdolamente la trama di fondo della sua esistenza o quella che affiora dovunque in questa umanità splendida e frenetica, proiettata in avanti dal progresso;

questa angoscia, è l’inconscia invocazione a un Dio Salvatore, a un Dio-Amore che dia un senso a tutto e a tutti.

  • Alcuni si battono legittimamente contro la società. Si pretende di colmarli di beni di consumo, ma non si riesce a soddisfare in loro altre esigenze che li dilaniano ogni giorno di più. Essi cercano allora di distruggere questa società, lottando contro le strutture economiche, sociali, politiche. Hanno dei programmi, dei progetti, ma si guardano invano intorno per trovare nel mondo le realizzazioni concrete dell’uomo e della società che sognano. Nei punti in cui hanno constatato dei netti progressi, registrano anche terribili crisi e incontrano un numero sempre maggiore di uomini profondamente insoddisfatti.
  • La vita e la piena realizzazione dell’uomo, la vita e lo sviluppo dell’umanità non possono avere che un <<senso>>: Dio-Amore. Privati di Dio-Amore, l’uomo e gli uomini diventano degli <<inibiti>>, degli <<alienati>>.
  • Se togliamo il mozzo alla ruota della bicicletta, i raggi si staccano. Se decentriamo l’evoluzione dell’uomo e dell’umanità, li condanniamo al caos e alla disperazione.
  • Anche se il vero Dio è presente, negli uomini e nel mondo, noi diventiamo a poco a poco incapaci di vederlo, facciamo di lui il grande Assente.
  • Dio-amore è presente negli uomini e nel mondo, come la linfa nell’albero, il lievito nella pasta del pane, la vita nel corpo; spetta a noi incontrarlo, amarlo, lottare con lui per liberare l’uomo. Spetta a noi rivelarlo.
Vorrei salire molto in alto … Padre Michel quoist

Il foruncolo non era maturo, Signore, l’ho schiacciato troppo presto – Padre Michel Quoist

Signore, il foruncolo non era maturo,

l’ho schiacciato troppo presto.

Il malato ha sofferto,

le sue carni sono infiammate,

e gonfie del loro veleno.

Ho dovuto attendere,

e curarlo con dolcezza.

Attendere che il suo corpo fosse pronto,

e lui stesso abbastanza forte per respingere il male.

È così, Signore,

che di fronte all’altro e agli altri,

a coloro che soffrono nel loro cuore per qualcosa di marcio

dovrei essere molto paziente,

e pregare a lungo.

Ma io,

tu lo sai,

sono impaziente,

orgoglioso.

Vorrei salvare i miei fratelli

prima che loro stessi lo vogliano

e si difendano da soli

contro il male che è in loro.

Peggio ancora,

sicuro del mio potere,

fiero della mia devozione,

mi credo capace di guarire, da solo, il male

che soltanto tu puoi guarire.

In primo luogo, o Signore, dammi

il rispetto per l’altro,

per i suoi sentimenti nascosti,

nei suoi lunghi cammini.

Non permettere mai che io mi introduca in casa di un estraneo,

o anche di mio fratello,

se lui stesso, dal di dentro,

non aprirà la porta.

Dammi la forza di attendere,

di non gettare le mie parole

come raffiche

contro le finestre di un cuore

che appena appena si socchiude,

poiché allora troppo spesso le mie parole si infrangerebbero

contro i muri,

senza raggiungere il cuore.

A meno che alcune di esse,

le più forti, le più sferzanti,

non penetrino nelle piaghe

e feriscano con maggiore crudeltà.

Insegnami Signore

il silenzio,

non un silenzio vuoto

troppo spesso popolato dalle mie fantasie,

ma il silenzio che attende le parole dell’altro,

prima di lasciare dolcemente posto alle mie.

Concedimi l’umiltà:

a me, che così spesso mi sento ricco,

nonostante le mie arie di modestia.

Certo della mia buona volontà,

della mia sapienza di “educatore”

della mia esperienza

della mia generosità

e anche della mia amicizia

e del mio amore onnipotenti.

Ricco di fronte all’altro,

che per me è un povero,

che debbo arricchire con generose elemosine.

Aiutami a riconoscermi peccatore come lui.

Di fronte a lui.

Io, che mi credo puro.

Io che sono soddisfatto di una vita

che ritengo perbene,

e così fiero delle mie piccole virtù,

magro capitale che ho ricevuto,

molto più di quanto abbia meritato.

Insegnami infine, o Signore,

a pregare di fronte all’altro

offrendolo alla luce del tuo Amore di Salvezza.

A pregarti “nell’altro”.

Tu che vuoi crescere in lui

e in lui desideri stabilire

per sempre la tua dimora.

Perché io, Signore,

non ho nulla da offrirgli,

se non il tuo Amore,

nel mio povero amore.

E la mia mano, semplicemente

posata con dolcezza sulla sua,

e il mio sguardo sereno

come colui che veglia silenzioso

al capezzale di un malato,

e alcune parole, forse

che nasceranno nel suo cuore,

se sei Tu che

le hai messe di notte sulle mie labbra.

Perché non sono che il tuo servo, Signore,

e se devo iniziare la mia opera,

fedelmente,

umilmente,

coscienziosamente,

attento ogni giorno ai sofferenti nell’anima

che incontro sul mio cammino

sei Tu solo che puoi colpire il male,

in loro,

in me.

Un male sepolto così a fondo

Che nessun dito umano che lo tocchi

può farlo uscire.

Poiché Tu solo

puoi cacciare gli “spiriti maligni”,

guarire i cuori,

e qualche volta i corpi, sanando i cuori.

Poiché “ Tu solo sei il Salvatore”,

e sei venuto per questo.

(Padre Michel Quoist)

Fonte: “Cammino di preghiera” di Michel Quoist, Ed. SEI Torino, 1988;

Preghiera per saper sopportare un’ingratitudine – Lucien Jerphagnon

Signore, non avrei mai creduto questo di X…

Da un altro questa stessa cosa mi avrebbe infastidito, è fuori discussione.

Dopo tutto quello che avevo fatto per lui…

Il mio primo sentimento è stato di sdegno. Signore, devo dunque domandarti anche di una cosa che non mi fa certo onore.

Quando ho visto come lui si comportava con me, ho pensato: “In occasione analoga, farò altrettanto. Ciò gli insegnerà …”.

Insomma, “ciò gli insegnerà” che cosa? …

Sono io che ho molte cose da imparare.

Imparare che gli uomini sono quello che sono.

E’ detto che tu sapevi “che cosa c’è nell’uomo” (Giovanni, II, 25).

E, tuttavia, non ti sei allontanato da loro.

Ho ancora molto da imparare.

Da imparare che non tutti possono essere riconoscenti.

Non è sempre colpa loro. In ogni caso, non è certo colpa tua.

Da imparare… Che cosa ancora?

La cosa più difficile, forse.

Imparare ad amarli, costi quello che costi, ad amarli, anche se mi giocano qualche brutto tiro, anche se “mutano bandiera” come ha fatto X… e fingono di non conoscerti più, dopo essersi serviti di me.

Signore, pretendo di conoscere la vita e ignoro queste cose.

Ignora che un servizio reso si dimentica…

Soprattutto certi servizi…

Ah! ancora una cosa, Signore, una cosa ancora più difficile da dire.

Si, ecco… questa mattina, quando ho saputo che X… mi aveva, per cosi dire, dimenticato, ho quasi avuto il coraggio di paragonarmi a te, a te sofferente e tradito.

Signore, dammi anche, oltre al resto, il senso del ridicolo.

– Lucien Jerphagnon –

Preghiera per i giorni in cui la fede si oscura – Lucien Jerphagnon

Questo cammino nella notte, Signore, è una cosa che sfinisce.

Camminare senza vedere, può andare per un momento; ma quando non ha fine…

“Volete andarvene anche voi?” (Giovanni, VI, 69)

Io li capisco, Signore, quelli a cui tu dicevi ciò.

Quelli che trovavano troppo dure le parole del tuo messaggio.

Alcuni hanno preferito andarsene.

Talvolta, ho voglia dire fare altrettanto.

Vorrei che tutto fosse chiaro, spiegato, catalogato.

Che non ci fosse più questo margine di oscurità, che mi guasta il piacere di andare verso la tua luce.

In fondo, quello che vorrei, è lasciare la condizione umana.

Perché, in fin dei conti, a guardar bene ogni cosa, non è solo del tuo messaggio che mi sfugge il senso.

Che so io delle cose, che si dicono umane, che so delle leggi segrete del mondo, del perché della vita?

Che so delle folle che mi circondano, del cuore dei miei stessi amici?

Che so io di me stesso, del mio viso, dei miei motivi segreti di tante decisioni che credo di prendere “per una buona causa”?

E sto per indignarmi, perché tu non mi hai dato, fin da ora, degli occhi capaci di vederti faccia a faccia…

Per il fatto che non ti vedo, Signore, devo forse renderne responsabile l’eccessivo splendore della tua luce?

Se ti conoscessi come conosco le cose, allora, saresti, tu, forse, il mio Dio?

Signore, che io non creda mai che la notte della fede sia un supplizio che tu mi infliggi, una prova che mi fai subire.

E’ forse colpa tua, se sei al di là di tutto?

O Signore, mio Dio, ti rimprovererò, forse, di avermi strappato dalle tenebre, da quelle tenebre in cui non sapevo ancora che cosa fosse il desiderio di te.

– Lucien Jerphagnon –

Preghiera di un perpetuo malato – Lucien Jerphagnon

Signore, sono stanco di questi continui malesseri, di questi disturbi snervanti e ridicoli, di tutta questa stanchezza, quando non ho fatto nulla di straordinario.

Sono stanco di queste continue indisposizioni, che fanno dire a chi mi sta vicino: “Ma quest’uomo ha sempre qualcosa …”.

Sì, ho sempre qualcosa.

Ben inteso, nulla di grave, nulla che spinga gli altri a considerarmi con quel rispetto, misto a timore, che si ha generalmente in tali occasioni…

Quando si dice: “Potrebbe capitare anche a me …”.

Niente di tutto questo. Ciò che ho, non sono che sciocchezze, dei niente.

Dei niente che non fanno paura a nessuno: un’emicrania oggi, una influenza domani, poi sarà la volta del fegato, e così di seguito.

Dei niente, ecco tutto.

Me è un continuo. E finisco col perdere la pazienza.

Mi accade, talvolta, di sognare una vita forte, priva di malattie…

Una bella vita, piena di vigore, che mi troverebbe ogni mattina riposato, fresco, pronto ad impormi con un sorriso…

Una bella vita immaginaria…

Aggiungo che mi vien voglia di invidiare gli altri, quelli che stanno bene.

Trovo ingiusto il loro aspetto riposato, il loro colorito fresco, i loro pasti senza paure‚ privazioni…

E quel sorriso che hanno per dirmi: “Oh! che cos’ha di nuovo questa mattina?”, con quell’aria di persone che sanno nemmeno di che si tratta.

Perdonami, Signore, di essere stato ingiusto. So che non è del tutto colpa mia. 

Ma, voglia o non voglia, li ho guardati con rancore. E’ assurdo.

Fa, o Signore, che capisca… che essi non mi capiscono.

Dammi la forza di volontà, che costa così cara, quando non si ha voglia di nulla.

La forza di non lasciassi andare, come dicono le brave persone. La forza di essere impeccabile, nonostante tutto.

Signore, aiutami a portare le mie piccole miserie con eleganza.

Preghiera per un fallito – Lucien Jerphagnon

Signore, lo so, non valgo gran che in questo mondo.

Sono fallito negli studi, ho provato tutti i mestieri, o per lo meno quelli che non esigono alcuna specializzazione.

Non sono capace di mantenere un impegno più di sei mesi.

Di me la gente dice: “E’ un fallito”.

Sotto un certo punto di vista, è vero.

Nemmeno io so più se, quand’ero ancora un ragazzo, ho mirato troppo in alto o, troppo in basso.

E’ triste essere un fallito. Quando uno se ne accorge, è sempre troppo tardi.

Prima era una cosa che neppure mi sfiorava. Adesso ne soffro tremendamente.

Tutto è venuto pian piano, con l’età. E so che ormai è troppo tardi, perché io possa essere altro che un fallito.

Non sapevo che la vita camminasse così in fretta.

E poi, non è tanto facile rimontare la china.

Gli altri non ti prendono sul serio. E’ finito.

Ormai: per loro tu sei “il fallito”. Ti affogano sempre più in questa certezza.

Viene il giorno in cui non puoi più fare meglio.

Signore, senza alcun dubbio, è molto tardi perché possa fare ancora gran che di buono nella vita.

Devo pur ammetterlo, senza amarezza, semplicemente.

Senza accusarne la società, il governo, i miei genitori o gli altri in generale…

Sarebbe troppo facile.

Tuttavia, Signore, vorrei poter ancora riprendermi.

Senza rassegnarmi, troppo facilmente, ad essere per sempre l’ultima ruota del carro.

Senza coltivare tranquillamente la mia strana caratteristica di non essere buono  a nulla.

Signore, vorrei essere ancora buono a far qualcosa. Pur sapendo che ormai è molto tardi.

– Lucien Jerphagnon –

Preghiera di un educatore sfinito – Lucien Jerphagnon

Signore, è il momento della mia preghiera.

La farò al mio scrittoio, stasera, alla luce della lampada, vicino all’ultimo compito corretto.

L’ultimo per questa sera. E domani ricomincio.

Rivedo già la mia classe, le  quaranta testoline pazze, a cui devo insegnare – tant’è – della nozioni, non tanto ridicole, in fondo.

Rivedo X …, la mia pecora nera, che avrà dimenticato una volta ancora il compito, e che avrò voglia di prendere a schiaffi.

E Y…, che mi infastidisce, muovendosi continuamente tutta l’ora, e che sbatterò sicuramente fuori dalla porta.

E Z … , che capisce con uno, due o tre minuti di ritardo – quando capita che capisca qualcosa.

Perfino i “buoni” mi stancano questa sera.

Mi pare di vederli tutti là, irrequieti, snervati, esigenti, incapaci di lasciarmi un minuto di riposo, che studino, sia che non facciano nulla.

Signore, questa sera non ti offro nulla di straordinario.

Non ho che i miei nervi tesi, il mio cattivo umore, e un abbassamento di voce.

E lo scoraggiamento che sta per venire, cui non voglio tuttavia soggiacere.

Perché‚ domani occorrerà essere pronto e dire, con calma, senza urlare: “Un po’ di silenzio per favore… entrate”.

Come ogni mattina, da vent’anni.

Domani… Ah! vorrei ritrovare un po’ del mio entusiasmo di un tempo, un po’ della mia fierezza un tantino ingenua dei miei primi anni.

Vorrei, Signore, offrir “loro” ogni mattina, una voce calma, un viso rasato, un’attenzione serena.

Vorrei prenderli come sono, i miei ragazzi, proprio come sono, come ero io, quando avevo la loro età.

Vorrei lavorare per loro, senza aspettarmi nulla.

Non solo lì per procurarmi delle soddisfazioni.

Cosa che dimentico sempre: bisognerà che vi pensi ancora, perché, è, importante.

Ma non questa sera, Signore, Questa sera devo dormire. Per loro.

– Lucien Jerphagnon –

Preghiera di un capo scoraggiato – Lucien Jerphagnon

Signore, volevo – una volta, molto tempo fa – fare dei miei dipendenti degli amici.

Avrei voluto non punirli mai, non biasimarli mai.

Pensavo anche che con un po’ di fortuna, non avrei mai dovuto dir loro cose spiacevoli…

Pensavo che sarebbe bastato, per riuscirvi, di “sapermi regolare”; e siccome ero proprio persuaso che sapevo…

Dimenticavo solo la natura umana.

Ci sono proprio delle persone da cui non ci si può cavar nulla.

Quando, un tempo, me lo dicevano, io sorridevo…”Che idea pessimista! Io cambierò tutto questo …”.

Non ho cambiato nulla.

Ci sono delle persone da cui proprio non ci si può cavar nulla.

Delle persone con cui si fa fatica a vivere, per quanto ben disposti si sia.

Ricordati, Signore: “O gente infedele e perversa, fino a quando starò tra voi, e vi sopporterò? ” (Luca, IX, 41)

Signore, la prima cosa che devo imparare da te, è di accettarli come sono.

Prenderli così come sono: l’atto fondamentale del vero amore.

Ammettere che non hanno niente di attraente – è il meno che si possa dire – e tuttavia considerarmi responsabile della loro felicità.

Ammettere che sono senza intelligenza, senza finezza – ciò bisogna pur riconoscerlo – e non rinunciare per questo a rispettarli.

Ammettere che si credono sempre offesi, che si mostrano sempre diffidenti, anche quando ho fatto tutto ciò che ho potuto per essere giusto.

Non dirmi mai che, dopo tutto, “essi” non meritano tanto.

Signore, avevo voluto essere amato…

O piuttosto, ho voluto sedurre.

Avere il ruolo del giovane capo “amato dai suoi uomini”…

Erano cose da romanzo, Signore. Da cattivo romanzo.

Signore, anzitutto, perdonami di aver voluto sedurre.

Poi, aiutami, semplicemente, a lavorare per loro.

– Lucien Jerphagnon –

La morte della Parrocchia – don Bruno Ferrero

Sui muri e sul giornale della città comparve uno strano annuncio funebre: «Con profondo dolore annunciamo la morte della parrocchia di Santa Eufrosia. I funerali avranno luogo domenica alle ore 11».

La domenica, naturalmente, la chiesa di Santa Eufrosia era affollata come non mai. Non c’era più un solo posto libero, neanche in piedi.

Davanti all’altare c’era il catafalco con una bara di legno scuro.

Il parroco pronunciò un semplice discorso: «Non credo che la nostra parrocchia possa rianimarsi e risorgere, ma dal momento che siamo quasi tutti qui voglio fare un estremo tentativo. Vorrei che passaste tutti quanti davanti alla bara, a dare un’ultima occhiata alla defunta. Sfilerete in fila indiana, uno alla volta e dopo aver guardato il cadavere uscirete dalla porta della sacrestia. Dopo, chi vorrà potrà rientrare dal portone per la Messa».

Il parroco aprì la cassa. Tutti si chiedevano: «Chi ci sarà mai dentro? Chi è veramente il morto?».

Cominciarono a sfilare lentamente. Ognuno si affacciava alla bara e guardava dentro, poi usciva dalla chiesa.  Uscivano silenziosi, un po’ confusi.

Perché tutti coloro che volevano vedere il cadavere della parrocchia di Santa Eufrosia e guardavano nella bara, vedevano, in uno specchio appoggiato sul fondo della cassa, il proprio volto.

«Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 2,5).

Se c’è polvere nelle sale della tua parrocchia, c’è polvere sulla tua anima.

Il potere immenso delle mani – don Ferrero Bruno

Un’insegnante chiese agli scolari della sua prima elementare di disegnare qualcosa per cui sentissero di ringraziare il Signore.

Pensò quanto poco di cui essere grati in realtà avessero questi bambini provenienti da quartieri poveri.

Ma sapeva che quasi tutti avrebbero disegnato panettoni o tavole imbandite.

L’insegnante fu colta di sorpresa dal disegno consegnato da Tino:

una semplice mano disegnata in maniera infantile.

Ma la mano di chi?

La classe rimase affascinata dall’immagine astratta.

“Secondo me è la mano di Dio che ci porta da mangiare” disse un bambino. “Un contadino” disse un altro, “perché alleva i polli e le patatine fritte”.

Mentre gli altri erano al lavoro, l’insegnante si chinò sul banco di Tino e domandò di chi fosse la mano.

“È la tua mano, maestra” mormorò il bambino.

Si rammentò che tutte le sere prendeva per mano Tino, che era il più piccolo e lo accompagnava all’uscita.

Lo faceva anche con altri bambini, ma per Tino voleva dire molto.

Hai mai pensato al potere immenso delle tue mani?

(don Bruno Ferrero)