Leopoldo Mandic

SANTO LEOPOLDO MANDIĆ

Lettere scelte

Con riflessioni di Leo Lazzarotto Padova 1982 (Vicepostulazione del B. Leopoldo Mandić)

Riflessioni

L’ideale: poche leggi ma buone

               Senza perdere nulla della nostra natura e dignità, noi potremmo rinunciare a molte cose tramandate dai tempi antichi o introdotte dai nuovi, ma alla LEGGE no. Chi s’illudesse di viver meglio sbarazzandosi di tutte le leggi, farebbe come un treno che s’invaghisse dell’aperta campagna e volesse scorazzarvi fuori dei suoi binari. Il treno s’impantanerebbe e l’uomo s’ imbestierebbe.

I nostri tempi non sono certo esemplari per un particolare ossequio alle leggi esistenti, ma promettono di esserlo per una particolarissima e diffusa capacità di farle, le leggi. Matricole universitarie si sentirebbero di rimetter ordine, in quattro e quattr’otto, in tutto il mondo scolastico, e l’operaio che lavora da poco alla catena d’una fabbrica è già in grado di risistemare l’intero settore industriale. Se poi guardiamo un po’ a fondo, vediamo che si tratta, più che altro, della brama di eliminare le leggi esistente, in nome della libertà. Però, siamo sinceri: è anche vero che esistono qua e là leggi antiquate e sorpassate: inutili se non vincolano più, dannose se vincolano ancora. E il risentimento, la rabbia, la ribellione morale diventano allora comprensibili.

Il difficile, al solito, è trovare l’equilibrio. Una società senza leggi creerebbe la sopraffazione dei forti e dei pochi e la schiavitù dei deboli e dei molti. E una società che ha bisogno di troppe leggi mostra la corda e prepara la ribellione.

Quando Dio volle ricordare all’ uomo, che ne stava dimenticando, le leggi basilari della vita umana, dettò i dieci comandamenti: poche norme ma centrate. Osservando quelle sul serio, non ne occorrerebbero molte altre, neanche con un’umanità divisa in nazioni, stati e strati sociali, occupazioni ed interessi concorrenti.

La coscienza morale sta fra la legge e l’uomo, destinata a metter d’accordo i dettami della prima con le azioni del secondo. Un compito piuttosto difficile: lo precede la conoscenza della legge e lo segue il compenso della coscienza.

Tre fasi, dunque.

Prima fase: la conoscenza

Anche a voler supporre tutta la buona volontà, non si può pretendere che tutti conoscano tutte le leggi, specialmente dov’esse sono più numerose, complicate o addirittura arruffate. In molti settori del vivere civile un mucchio di gente vive in gran parte sull’altrui ignoranza di leggi, decreti, regolamenti, articoli, commi … e sui dubbi che possono sorgere nell’interpretarne le singole parole. E questa gente ci vive assai bene, in genere: gli avvocati non sono usualmente poveri. Ma anche nel campo delle leggi divine e religiose succede qualcosa di analogo, e la Chiesa ha, tra gli altri, anche l’incarico di spiegare all’umanità le leggi che regolano la vita dello spirito e di chiarirne i dubbi, che sono talvolta teorici ma spesso terribilmente pratici e angoscianti.

Una coscienza retta spinge già da sé l’uomo a voler conoscere i propri doveri, almeno quando è il caso di farvi fronte concretamente. L’ignoranza colpevole delle leggi non scusa in campo umano, e non si capisce perché dovrebbe scusare di fronte a Dio.

Seconda fase: l’accordo

               Accordo cioè tra la legge conosciuta e le proprie azioni. Se la coscienza riuscisse sempre a realizzarlo, al mondo non esisterebbero che galantuomini e santi: un sogno mai fatto neanche dal più sognatore degli utopisti. Il fatto è che troppi interessi vi contrastano e che anche troppo spesso si preferisce il piacere al dovere. I soldi rapinati in banca sanno di comodo e brillano di successo; quelli guadagnati con l’onesto lavoro sembrano rugginosi di sudore e di lacrime, oltre essere sempre maledettamente pochi. Un piacere extraconiugale sa di avventuroso e di nuovo; quello di casa può sembrare ordinario e vieto. Un posto guadagnato scavalcando un concorrente suona trionfo; raggiunto nell’attesa è solo fatalità.

Per far collimare legge ed azione, la coscienza esige pazienza, sacrificio, rinuncia: tutte cose particolarmente ostiche se si devono affrontare senza nessun compenso.

Terza fase: il compenso

               Senza insistere, qui, sul compenso differito al merito dell’azione, accenniamo a quello, immediato, della stessa coscienza. Cioè lode e biasimo. Lode per la concordanza tra legge ed azione, biasimo per la discordanza. Almeno a questo punto, è difficile sfuggire alla coscienza. Un senso di pace compensa e addolcisce i sacrifici affrontati per compiere il proprio dovere; l’irrequietezza del rimorso amareggia anche le più ambite conquiste dovute all’ ingiustizia e raggiunte contro coscienza. E questo succede anche quando bene e male restano nell’ intimo di noi stessi, sfuggendo ad ogni controllo esterno. La prima pena il delinquente l’ha in sé stesso. Almeno fino a quando non sia raggiunto lo stadio di delinquente o peccatore <<perfetto>>, che sa imporre silenzio alla propria coscienza: ma questa sarebbe la fine dell’uomo razionale e morale. Al limite opposto sta chi sente squilli di tromba anche nei più lievi ronzii della coscienza: siamo allo scrupolo. L’uomo giusto sta fra i due estremi, ma molto più vicino alla delicatezza di coscienza che alla sua distruzione.

Lavoro: una grazia

               Comunque poi si guardi il lavoro (simpatico diritto o antipatico dovere), esso è nell’ intima essenza una grazia di Dio. <<Non mi mancano, per grazia di Dio, le occupazioni>>, scrive in una lettera P. Leopoldo. Tutto ciò che porta alla gloria è grazia, secondo la confortante e stimolante dottrina cristiana; e la fatica vi porta per sua natura. Sprecare tale grazia – come qualunque altra – sarebbe da insipienti; e il sacerdote è forse avvantaggiato in questo: egli non va mai in pensione. Certo, la nuova legislazione ecclesiastica ci toglierà molti esempi di sacerdoti che, caricati da responsabilità fino alla vecchiaia più avanzata, affrontavano opere ed iniziative superiori alle loro forze: adesso, ad una certa età, parroci e vescovi sono esortati a ritirarsi su posizioni arretrate per lasciare il lavoro più impegnativo ad energie più fresche. Ma, anche senza titoli, essi continueranno a lavorare per le anime finché a metterli da parte sarà la vera spossatezza, una malattia o la morte. Il che corrisponde non solo alle idee ma anche all’ esempio di P. Leopoldo, che confessò gli ultimi penitenti poche ore prima del trapasso e che si apprestava ad una nuova giornata di fatica anche quel mattino che sorella morte venne a dargli l’estremo riposo. Il suo cartellino di lavoro era scritto fino all’ultima riga: proprio come lui desiderava.

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