Romania e Italia OLTRE, tornando alle origini va detto …
ACCADEMIA DI ROMANIA CELEBRA CAMILIAN DEMETRESCU A 95 ANNI DALLA NASCITA, PERSONALITÀ DI SPICCO DELL’ESILIO ROMENO IN ITALIA
09-12-2019 19:09 – Persone
GD – Roma, 9 dic. 19 – L’11 dicembre, alle ore 18:30, l’Accademia di Romania in Roma con il sostegno dell’Istituto Culturale Romeno e in partenariato con l’Unione di Cineasti di Romania, ha organizzato l’evento “Una personalità di spicco dell’esilio romeno in Italia: Camilian Demetrescu – 95 anni dalla nascita” nella Sala Conferenze dell’Accademia di Romania in Roma.
Interverrà Marilena Rotaru, produttore e regista alla Televisione Nazionale Romena; invitata d’onore Mihaela Demetrescu, moglie e collaboratrice dell’artista.
La serata si articola in due momenti successivi: un’evocazione della personalità e della vita dell’artista, nel dialogo tra le due invitate, seguito dalla proiezione di documentari: “È qui che ho indossato la camicia cristiana” e “La forza del simbolo tra speranza e nichilismo”.
L’artista, l’erudita, lo studioso Camilian Demetrescu fu una persona di quelle che raramente s’incontrano nella vita”, così lo descrive Marilena Rotaru, creatrice della serie “La memoria dell’esilio romeno”.
Camilian Demetrescu nacque nel 1924 a Bușteni, dove abitavano i suoi nonni. Cosntantin-Paul è il suo nome di battesimo, ma prende quello del padre, ufficiale nell’esercito, scomparso a 36 anni. Segue la scuola elementare e media a Miercurea Ciuc e il Liceo Militare a Târgu Mureş. Si iscrive poi all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, ma segue anche corsi di medicina e filosofia. A 24 anni diventa membro dell’Unione degli Artisti di Romania.
Dopo il trasferimento in Occidente, nel 1969, per dieci anni la sua arte segue filoni astratti, tentando di liberarsi dall’incubo del “realismo socialista” che gli era stato imposto dal regime comunista. Il grande critico d’arte Giulio Carlo Argan lo considera il quinto tra i nomi dei grandi artisti italiani contemporanei. Col tempo, però, comprende la strada che ha da seguire. Si riconverte dall’arte astratta alla simbolistica sacra. Nel 1977 avviene la sua conversione e il ripiego sul simbolo, mentre sta restaurando con la famiglia la pieve “Santi Filippo e Giacomo”, piccola chiesa romanica del XII-esimo secolo, diventata in seguito monumento storico a Gallese (provincia di Viterbo). Quel posto incide profondamente sulla sua vita e sulla sua arte. Si riappropria della fede cristiana. Due anni dopo, a Parigi, conosce Mircea Eliade ed è soprattutto a lui che deve la decisione di abbandonare l’arte astratta. Scoprendo e comprendendo il tesoro dell’arte cristiana medievale, si dedica ad un’arte con carattere spirituale. Organizza mostre in quasi tutte le grandi città della Penisola, ma anche della Francia. I suoi lavori sono presenti in varie chiese. Nel 1986, la Pontificia Commissione per l’Arte di Vaticano lo invita, insieme ad 33 artisti europei, a illustrare La Divina Commedia.
La casa editrice “Il Cerchio” di Rimini pubblica i suoi libri: Nel letto di Procuste. Aforismi e disegni sui paradossi del XX secolo, Exil. Le prove del labirinto (1995), nonché i volumi dedicati al Simbolo nell’arte romanica: Solstizio eterno sulle basiliche dell’Italia Centrale e Proverbi di pietra sui duomi di Piacenza e di Ferrara. A Bucarest, invece, la casa editrice Albatros pubblica il volume di memorie Exil. Incercarile labirintului (1997) e in seguito Exil. 1995-2009. Întoarcerea la simbol, volume pubblicato dal Museo della Letteratura Romena (2009).
Dal forte impatto che la Rivoluzione del 1989 in Romania ha sull’artista, prenderà vita il “Comitato Pro Romania”, attraverso il quale organizza trasporti di aiuti materiali il suo paese natio e pubblica in due edizioni la Bibbia nella variante romena tradotta dallo scrittore Gala Galaction, per diffonderla tra i compatrioti. Le sue conferenze alla Scuola di Sighet e alla Facoltà di Architettura di Bucarest godono di un pubblico interessato. Nel 2000 presenta a Bucarest una mostra retrospettiva, “30 anni d’arte in Italia”, con una raccolta di oltre 300 opere create durante l’esilio italiano.
Nel 1990 viene insignito del premio internazionale “Il labirinto d’argento”. L’anno successivo, viene poi insignito del Premio Internazionale per l’Arte “La Pleyade”, conferito dalla Fondazione “Adenauer” e dalla Camera dei Deputati Italiana.
L’artista è assalito dalla consapevolezza del degrado del mondo d’oggi: “In un mondo in cui l’arte si è completamente distaccata dai valori morali, non mi stanco mai di ribadire con tutti i mezzi che il bello è il bene e il brutto è senza dubbio il male”. La perdita di significati dell’esistenza costituisce il dramma più atroce della civiltà umana. I simboli cristiani sono gli unici a poter ancora stimolare l’essere umano. Ed è per questo che l’arte di Camilian Demetrescu significa il recupero dei simboli capaci di salvare l’essere umano dal degrado.
Alla domanda di Silvia Guidi, nell’intervista apparsa su “L’Osservatore Romano” (29 aprile 2011), sul modo in cui ha scoperto la fede, la risposta dell’artista fu: “Non l’ho scoperta. Era dentro di me dal giorno del mio Battesimo. Era rimasta nascosta, in attesa di essere riscoperta, fino a quando ho restaurato con le mie mani e con l’aiuto della famiglia e di alcuni amici una pieve romanica del XII-esimo secolo, a Gallese, nella provincia di Viterbo. Volevo allestirmi uno studio e ne è venuta fuori la nuova fonte battesimale del mio destino. Ho fatto il segno della croce e ho indossato per la vita e per l’arte la camicia cristiana”.
Marilena Rotaru (n. 1947) è autrice, documentarista, giornalista per la televisione, pubblicista e narratrice romena, nota come creatrice di programmi culturali per la Televisione Romena, particolarmente per la serie di testimonianze dedicate alle personalità romene espatriate, “La memoria dell’esilio romeno”, in cui ha intervistato molti degli esiliati durante il regime comunista. Con i suoi 150 episodi, la serie offre ritratti di personalità culturali, artistiche, scientifiche romene di notorietà mondiale, tra i quali: il Re Michele di Romania, Emil Cioran, Vintilă Horia, Sergiu Celibidache, Nelly Miricioiu, George Țipoia, ecc.
IOAN AUREL POP, Presidente della più alta istituzione culturale della Romania, l’Accademia Romena di Bucarest, professore e già rettore del prestigioso ateneo transilvano, l’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca, è autore e coautore di oltre settanta libri, trattati e manuali e più di cinquecento studi e articoli, tra cui i più recenti sono Cultural Diffusion and Religious Reformation in Sixteenth-Century Transylvania. How the Jesuits Delath with the Orthodox and Catholic Ideas (The Edwin Mellen Press, Lewiston – Queenston – Lampeter, 2014), A Short Illustrated History of the Romanians (Editura Litera, București, 2017). Ben noto a livello internazionale nel campo degli studi relativi al Sud-Est dell’Europa gli è stato conferito il titolo Doctor Honoris Causa da dieci università della Romania e dell’estero. È membro di alcune accademie e società scientifiche straniere, tra cui l’Accademia europea delle scienze e delle arti di Salisburgo (Austria), l’Accademia nazionale virgiliana di Mantova (Italia), l’Ateneo veneto di Venezia (Italia), l’Accademia europea delle scienze, delle arti e delle lettere di Parigi (Francia). È stato visiting professor presso alcune università degli Stati Uniti, dell’Italia, della Francia, dell’Ungheria e dell’Austria, e direttore dell’Istituto culturale romeno di New York (Usa) e dell’Istituto romeno di cultura e ricerca umanistica di Venezia (Italia). Dal 1993 è direttore del Centro di studi transilvani di Cluj-Napoca dell’Accademia romena.
Tutto il libro è incentrato sul tentativo di rispondere nel modo più completo, chiaro e intellettualmente onesto a delle semplici domande sull’origine del popolo e della lingua romena, portando all’attenzione il fatto che i romeni fanno parte del gruppo dei popoli romanzi e parlano una lingua neolatina: “i romeni sono i discendenti della romanità orientale, e la testimonianza suprema di questo fatto è la loro lingua, di cui fa parte il loro nome, portatrice in sé della memoria di Roma”.
(…) Questo lavoro si propone di spiegare il problema dell’identità etnica e linguistica dei romeni, in un contesto universale, per la comprensione del grande pubblico e, pertanto, non è un prodotto puramente scientifico. Il suo linguaggio non è strettamente specialistico, e di conseguenza alcuni studiosi potrebbero restare insoddisfatti o delusi. Ho tentato di sintetizzare molti argomenti, in modo da non rendere difficile la lettura e la comprensione del messaggio. Tuttavia, l’idea di facilitare non va intesa come una deviazione dalla verità umana possibile. D’altra parte, il contenuto del libro opera con testimonianze raccolte da diverse lingue, soprattutto dal latino, che avrebbe potuto costituire un ostacolo nella lettura. Pertanto, ho tradotto in romeno tutti i testi di altre lingue. Abbiamo corso questo rischio, anche se il traduttore è un “traditore” – come dicono gli italiani – perché niente può equivalere al testo originale, genuino, né il fascino del linguaggio base in cui è stato scritto. Se non è risultato appunto un lavoro semplice, chiaro e intelligibile per alcuni, o se il suo livello scientifico-accademico non è all’altezza attesa da altri, è esclusivamente colpa dell’autore. Forse l’impegno funzionerà meglio in futuro. Feci quod potui, faciant meliora sequentes (“Ho fatto quello che ho potuto, facciano meglio coloro che verranno dopo”). (…) L’appartenenza dei romeni alla latinità, la loro qualità di membri della grande famiglia dei popoli romanzi racchiude una certa dote storica e indica una forma di evoluzione, sviluppata all’unisono col flusso della civiltà di successo partendo dal Mar Mediterraneo e arrivando alla Terra di Fuoco, al Capo di Buona Speranza o a Macao. Tali realtà non rappresentano alcun merito dei romeni, ma li mettono in linea con il mondo, stabiliscono le loro convergenze e spiegano molte delle loro conquiste. La latinità dei romeni non è motivo di lode o di vergogna, ma è una realtà semplice, quella di essere imparentati, linguisticamente e culturalmente, con gli italiani, gli spagnoli, i francesi, i portoghesi (…) IOAN AUREL POP
L’unità d’Italia per i romeni ortodossi nella penisola
Mar 18, 2011
Pr. Ioan Lupasteanu
Quest’anno l’Italia celebra il suo 150° anniversario dall’unità nazionale, suggellata il 17 marzo 1861 da Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia. Il formarsi di un governo di tutta la nazione, seguito di una intensa e operosa azione politica e patriottica, ha restituito al popolo italiano la fierezza dell’unità culturale, linguistica e politica di un tempo. Noi Romeni d’Italia ci uniamo con gioia a questo evento sentendoci partecipi non solo del presente di questa grande nazione, ma anche del suo passato. Come Ortodossi esprimiamo la nostra profonda attenzione e partecipazione a questo evento soprattutto con la preghiera, auspicando da Dio che sull’Italia e sugli Italiani risplenda sempre la luminosa esperienza della libertà conquistata in quegli anni di lotte e speranze, che la portarono a godere dell’indipendenza e dell’autonomia di una grande nazione. Questa attenzione spirituale non ci esime dal vivere ed approfondire quegli eventi storici che caratterizzano non solo il nostro popolo ma tutti quelli che in diversa misura fanno o hanno fatto parte della nostra storia, e il nostro legame con l’Italia è anch’esso quasi bi-millenario. Infatti la storia ha visto vicini i nostri popoli. Sin dall’epoca di Traiano il popolo Daco ha conservato e coltivato nel tempo un legame non solo linguistico (siamo identificati come l’isola latina nel mondo slavo) ma anche culturale: nella coscienza nazionale vive la convinzione che siamo di stirpe romana, io specificherei: anche romana.
Ma, per non entrare in merito ad un periodo storico lontano, seppur interessante, e direi fondamentale per la costruzione dell’identità di ogni popolo, vorrei soffermarmi su quegli aspetti, più recenti, che hanno visto sia l’Italia che la ‘Romania’ presi da quel movimento di unità che ha coinvolto l’intellettualità e la politica del periodo in questione. Una proficua letteratura del tempo ci testimonia di profonde relazioni tra Italia e Romania, più precisamente, tra italiani e romeni che si prodigarono per realizzare quell’unità nazionale frammentata da interessi di super potenze che ne debilitavano le radici culturali e persino la dignità umana, di quei popoli che mai avevano rinunciato ad essere un solo popolo sotto una sola bandiera. Il Risorgimento fu il primo movimento ad avere successo nell’Italia geo-politica frammentata.
Il movimento unitario è stato un rilevante e indiscutibile movimento rivoluzionario che contribuì in maniera determinante a mettere in crisi l’intero assetto europeo che il Congresso di Vienna del 1815 aveva ricostituito dopo la débâcle napoleonica. La carboneria, poi la massoneria, prima nei moti del 1820 e ’21, poi quelli 1830, tentarono di rivendicare nuovi spazi di libertà politica, sociale, economica, istituzionale. Il modello Italiano, espressione di una coscienza nazionale da ricostruire e ricompattare, divenne il modello anche per quella parte della Romania che anelava ai medesimi fini: ricostruire l’unità della nazione. Marco Baratto, studioso e ricercatore insigne di questo periodo, così scrive: Troppo spesso il nostro Risorgimento, viene vissuto come un fenomeno puramente nazionale e non se ne apprezza la sua portata europea, soprattutto non si apprezza il fatto che l’Italia , e il suo processo unitario, fu un modello a cui guardavano con ammirazione le varie nazionalità oppresse. Attraverso l’analisi delle motivazioni che spinsero Cavour, Mazzini e Garibaldi ad interessarsi delle vicende delle popolazioni dell’attuale Romania si vuole rendere onore, in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia , previsto per il 2011 ed a quanti nel corso di tutto questo tempo hanno reso possibile la costruzione di solide relazioni tra gli italiani e rumeni.
Fu attorno alle personalità di spicco di Cavour e Giuseppe Mazzini che si ispirerà il movimento di unità nazionale, già iniziata da Tudor Vladimirescu che nel 1821 diede il via ad una prima rivolta che fallì miseramente, capeggiata da Nicolae Balcescu. Simone Pelizza scrive: Un nuovo moto rivoluzionario nel 1848 accrebbe la diaspora esterna, intensificando i legami della causa romena con quelli degli altri movimenti nazionali europei. In Italia questa operazione fu principalmente condotta dallo storico Nicolae Balcescu, che ebbe molteplici contatti con la Giovine Italia di Mazzini. Morto a Palermo nel novembre 1852, Balcescu impressionò gli intellettuali italiani per il suo stile acuto e brillante, espresso in numerosi articoli pubblicati sui principali quotidiani lombardi e piemontesi. Probabilmente fu questa limpidezza retorica a guadagnare l’appoggio di Cesare Correnti alla causa romena: dal 1855 lo scrittore milanese si dedicò infatti con straordinaria passione a denunciare il calvario dei popoli danubiani, incrementando il favore popolare nei loro confronti.
Non entriamo nei dettagli delle vicende storiche che determinarono l’occupazione austriaca e l’inasprimento dell’opposizione ottomana e viennese all’unione della Moldavia con la Valacchia, sta di fatto che fu l’appoggio dei piemontesi, e di Cavour in particolare, che incoraggerà in seguito non solo la resistenza ma anche sosterrà, a livello internazionale, la necessità che la Moldavia e la Valacchia formino un solo stato. Subito dopo la chiusura della conferenza di Parigi, i nazionalisti romeni si misero subito all’opera per aggirare le restrizioni imposte arbitrariamente dalle grandi potenze. Grazie all’impegno di leader carismatici come Ioan Manu e Stefan Catargiu, moldavi e valacchi elessero infatti un unico gospodaro per entrambe le loro terre, infrangendo esplicitamente il dettato stabilito dalla diplomazia internazionale. Il prescelto fu il colonnello Alexander Ioan Cuza, eroe della rivoluzione fallita di dieci anni prima ed esponente di spicco dell’assemblea valacca. Liberale tutto d’un pezzo, Cuza odiava gli austriaci, di cui era stato prigioniero dopo i moti del quarantotto, e godeva del pieno appoggio inglese per via della sua moderazione politica. Fu un colpo da maestro, che mise definitivamente fuori gioco il governo di Vienna.
Nonostante le accese proteste, infatti, Francesco Giuseppe non riuscì ad invalidare l’elezione di Cuza, che ottenne invece il pieno riconoscimento di Francia, Russia e Regno di Sardegna. Dal canto suo, il neo-eletto usò toni estremamente cauti, curando con intelligenza la propria relazione personale con Napoleone III, vero e proprio motore della politica europea di quegli anni. Nel frattempo spedì il poeta Vasile Alexsandri come ambasciatore in giro per l’Europa, cercando di convincere i vari stati a dare il loro appoggio alla causa romena. A Torino l’improvvisato diplomatico ebbe un incontro assai piacevole con Cavour e Vittorio Emanuele II, che assicurarono il loro pieno sostegno al governo di Cuza.
E in effetti, pur impegnato nei preparativi per l’imminente conflitto con l’Austria, il governo piemontese continuò a fornire aiuto prezioso ai patrioti danubiani. Già nel febbraio 1859, Cavour presentò un progetto di legge per istituire un consolato generale a Bucarest, riconoscendo ufficialmente l’indipendenza politica romena; tale disposizione fu approvata a tempo di record sia dalla Camera che dal Senato, coronando così una paziente strategia diplomatica durata quasi tre anni. In estate, mentre infuriava la guerra in Lombardia, fu inviato in Valacchia come rappresentante diplomatico Annibale Strambio, che giocò un ruolo cruciale nella pacificazione tra romeni e turchi. Le autorità di Costantinopoli erano infatti furiose per l’atteggiamento ribelle di Cuza, che rifiutava di presentarsi al Sultano come semplice vassallo, pretendendo invece gli onori abitualmente concessi agli altri sovrani d’Europa. Insieme ai colleghi inglese e francese, Strambio convinse il governo turco della futilità delle proprie lamentele, rimarcando il grave isolamento internazionale in cui si trovava la Sublime Porta. La contemporanea sconfitta dell’Austria in Italia convinse il Sultano della necessità di far buon viso a cattivo gioco; nell’autunno 1860 Cuza fu ricevuto a Costantinopoli su un piano di completa parità, ricevendo apprezzamenti lusinghieri dalle massime cariche dello stato ottomano. La Romania era ormai de facto uno stato unito e indipendente. Il 24 gennaio 1862 Cuza ufficializzò definitivamente la cosa, insieme alla ratifica internazionale, con un proclama formale: ‘Rumeni, l’unione è già fatta. La nazione rumena è fondata. Quest’atto grandioso che le passate generazioni avevano desiderato, acclamato dall’Assemblea legislativa, invocato da noi, fu riconosciuto dalla Sublime Porta e dalle Potenze garanti e sta ora scritto nei diritti delle genti […] Amate dunque la vostra patria e sappiatela consolidare. Evviva la Romania!’.
Si chiudeva così una lotta nazionale durata oltre tre decenni, sostenuta dal sacrificio sincero di tanti patrioti e rivoluzionari. Ma anche dall’attiva collaborazione del Regno di Sardegna, che aveva giocato un ruolo fondamentale nel processo di unificazione romeno. Non a caso, Cuza fu uno dei primi monarchi a congratularsi con Vittorio Emanuele II per la sua proclamazione a re d’Italia nel marzo 1861, affermando la solenne fratellanza tra italiani e romeni. E questa dichiarazione non fu solo una piaggeria diplomatica: negli anni successivi, infatti, i rapporti tra i due regni rimasero estremamente cordiali e produttivi, soprattutto sul piano culturale. Diversi studiosi italiani contribuirono all’istituzione dell’Università di Bucarest, mentre studenti e ufficiali romeni rifinivano la loro preparazione nelle accademie Italia. Il tutto in un’atmosfera di genuino rispetto e amichevole confronto.
L’amicizia tra l’Italia e la Romania è tutt’altro che banale e superficiale: i 150 anni dell’Unità d’Italia rappresentano anche per noi una vittoria, una riconquista del tessuto culturale unitario del popolo ‘romeno’, che dopo il grande periodo dell’impero romano ha conosciuto umiliazioni e subito dominazioni che però non ne hanno spento la coscienza dell’unità culturale, di un popolo la cui dignità risale a Decebal, uomo e signore dei Daci, le cui gesta e il cui valore furono celebrati dal grande Traiano.
Altra figura di spicco per la politica della nascente Italia fu Giuseppe Mazzini che sostenne ed avviò quel movimento politico segreto chiamato ‘Giovane Italia’, società che si definiva: ‘La fratellanza degli italiani, credenti in una legge di progresso e di doveri; i quali, convinti che l’Italia è chiamata ad essere Nazione che può con forze proprie chiamarsi tale che il mal esito dei tentativi passati spetta, non alla debolezza, ma alla pessima direzione degli elementi rivoluzionari, che il segreto della potenza è nella costanza e nell’unità degli sforzi, uniti in associazione, il pensiero e l’azione al grande intento di restituire l’Italia in Nazione di liberi e uguali’.
Il pensiero di Mazzini non si limitava all’ambito italiano, con profetica visione si allargava all’intero continente europeo, tanto da spingerlo a sostenere che: ‘Coi popoli aggiogati forzatamente al carro dell’Austria, coi popoli che devono essi pure rivendicarsi libertà e indipendenza. Sia (…) la guerra delle nazioni. Levate in alto la bandiera, non solamente d’un interesse locale, ma di un principio, del principio che da oltre mezzo secolo ispira e signoreggia ogni moto europeo. Scrivete sulla vostra le sante parole: per noi e per voi; e agitatela, protetta da tutte le spade che possono snudarsi in Italia, sugli occhi agli Ungheresi, ai Boemi, ai Serbi, ai Romeni, agli Slavi meridionali, alle popolazioni bipartite fra l’Impero Austriaco e il Turco’.
Così scrive lo storico Marco Baratto: Nel 1848 sull’Europa soffia il vento della libertà, una dopo l’altra, rivoluzioni scoppiano a Parigi, Berlino, a Vienna, a Milano: anche i rumeni innalzano la bandiera rivoluzionaria e vogliono cambiare il paese. L’influenza del pensiero mazziniano sui rivoluzionari romeni in maggioranza moldovalacchi , è riscontrabile nel dibattito che seguì dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848/1849 e il credo e il frasario mazziniani, allora familiari alla classe politica e alla parte più evoluta del popolo romeno, fecero sì che la proposta di Mazzini di una democrazia ‘Europea’ e i suoi progetti federalisti, figurassero al primo posto nei progetti delle società segrete romene nate ad imitazione della ‘Giovane Italia’.
Del resto, da tempo emissari del Mazzini erano attivi in terra romena, che era la base di tanti piani e tentativi insurrezionali nell’Europa danubiano-balcanica e in Polonia e i messaggi di Mazzini a coloro che egli non cesserà mai di chiamare ‘i suoi amici di Bucarest’, parlano di ‘concordanza di dottrina, identità di fini e ricerca assidua d’operosa concordia’.
Dopo la parentesi rivoluzionaria, l’attività svolta in esilio dai liberali radicali romeni mirava a promuovere la cultura politica democratica e repubblicana e, al ritorno in patria, le più belle pagine del loro giornale ‘Românul’ vennero dedicate all’illustrazione delle tesi mazziniane. ‘La Giovane Romania’ collaborò, fin dalla nascita, con il ‘Comitato di Londra’ e partecipò alle iniziative dell’Alleanza Repubblicana Universale.
Tra i fondatori: Nicolae Balcescu, Constantin Rossetti, i quattro fratelli Golescu, i due Bratianu, tutti fervidi d’ingegno e operosità nella loro fede europeistica. Identificando in Mazzini la guida indiscussa del movimento per la trasformazione della carta geografica e dello spirito dell’Europa, Dumitru Bratianu, quale rappresentante dei Romeni nel Comitato Democratico Europeo, andrà a Londra per conoscerlo e stargli vicino.
Mazzini che riconosceva ai romeni un ruolo particolare nella futura Europa, scriveva per l’appunto: ‘Tutte le nazioni erano uguali, dotate di una missione e con il sacro diritto dell’iniziativa rivoluzionaria. Per quello che riguardava la razza romena, […] era chiamata a fare il collegamento tra la razza slava e quella grecolatina ‘. Ricordiamo che, al pari di quello italiano, il popolo romeno era frammentato tra Stati diversi e non tutti i patrioti romeni seguivano la stessa linea. I movimenti insurrezionali del 1848, vedevano avanzare richieste diverse da regione a regione. In Valacchia, si chiedeva la fine del protettorato russo e del ‘Regolamento Organico’, e la sua sostituzione con la Costituzione Nazionale. In Moldavia, bastavano alcune semplici riforme del ‘Regolamento Organico’.
Trasilvania, che dopo la pace di Karlowitz era stata annessa all’Impero d’Austria, si chiedeva parità con le altre nazionalità dell’impero e soprattutto di non essere uniti con un eventuale stato maghiaro. Divisioni e beghe tra i rivoluzionari romeni, tanto simili a quelle tra italiani, fecero fallire entrambi i movimenti insurrezionali del 1848,1849 e 1853 e furono giudicate con severità sia da Mazzini sia dal romeno Constantin Rossetti.
Il primo, nel 1850, nello scritto ‘Foi et Avenir’ sosteneva ‘mancanza di organizzazione, di unità, lotte meschine tra i vari gruppi politici sono all’origine del fallimento della nostra impresa’. Mentre, nel la contemporanea ‘Cronica politica’ del Rossetti, emerge un’interessante parallelismo, infatti, il patriota romeno sosteneva: ‘Milano, Venezia, Roma e le altri parti dell’Italia, invece di sollevarsi insieme tutte d’un colpo, rovesciando tutti gli imperatori, di proclamare la Repubblica Italiana, una sola stanza e un solo governo popolare e repubblicano, si alzarono a turno… Così, anche noi romeni ci alzammo solo in parte e a turno’. Nel giugno 1850 è organizzato, a Londra, il Comitato Centrale Democratico Europeo, che prova a rapportarsi con gli esuli romeni e quelli ungheresi, nel tentativo di mediare le dispute create dal problema delle nazionalità in Ungheria e, nel 1851, lancia il famoso appello ‘Alle popolazioni romene’ firmato, oltre che da Mazzini, anche da Ledru Rollin e da Darasz che, tra l’altro, dice: ‘Il popolo romeno, avanguardia della razza greco-latina, è chiamato a rappresentare in Europa orientale il ponte con le nazionalità slave e il principio della libertà individuale e del progresso collettivo che ci definisce noi, europei, come apostoli dell’umanità’. Nemici degli slavi, degli ungheresi, degli italiani, dei greci e dei rumeni sono l’Imperatore d’Austria e lo Tzar. Il futuro appartiene ai popoli liberi e le controversie verranno risolte da un congresso in cui questi saranno ‘equamente’ rappresentati. I rapporti tesi tra le nazionalità danubiane verranno normalizzati dalla costruzione della confederazione. ‘La grande confederazione danubiana sarà cosa dei nostri tempi. Quest’idea vi deve guidare le azioni. Il ponte di Traiano, con le sue basi sulle sponde del Danubio, è il simbolo dello stato attuale. I nuovi ponti saranno realizzati con le vostre mani. Ecco il vostro compito per il futuro’.
L’appello, appartenente a C. A. Rossetti, è tradotto in lingua romena, in cirillico e latino e viene pubblicato, grazie a I. C. Bratianu e a D. Florescu, da ben dieci giornali parigini. Sulla stampa italiana appare (il 3 luglio e l’8 d’agosto) su la ‘Voce del deserto’ e nel supplemento di luglio agosto de ‘Italia e il popolo’. L’interesse di Mazzini per la causa romena non viene meno neppure negli anni successivi e, sia nel 1859, ma anche nel 1866, l’apostolo della libertà dei popoli, tornerà ad interessarsi della Romania. La sua attenzione è stimolata dal profilarsi, proprio nel 1866, di un nuovo scontro tra Italia e Austria.
Come si evince dai dati storici riportati da Marco Baratto, la Romania come l’Italia, rappresentano per l’Europa del tempo il seme di speranza, seppur politica, di una Europa unita, non più dominata da poche super potenze, ma che abbia al centro la libertà e la dignità di ogni uomo. L’Italia col suo impulso e il suo entusiasmo e la Romania, strategicamente collocata al centro di un mondo culturale diviso, rappresentarono la pietra miliare per costruire ponti di fratellanza, di libertà, di uguaglianza fra i popoli.
Alla vigilia della terza guerra d’indipendenza per liberare le terre venete ancora soggette all’Austria, Mazzini chiede al Governo Italiano di stringere alleanza, non con la con la Prussia, ma: ‘Coi popoli aggiogati forzatamente al carro dell’Austria, coi popoli che devono essi pure rivendicarsi libertà e indipendenza. Sia (…) la guerra delle nazioni. Levate in alto la bandiera, non solamente d’un interesse locale, ma di un principio, del principio che da oltre mezzo secolo ispira e signoreggia ogni moto europeo ‘.
E dopo la guerra ripete che: ‘L’Austria aveva in Italia 150.000 uomini. La guerra prussiana le vietava, checché accadesse, di aggiungerne uno solo. E non basta. Al di qua e al di là della Alpi Dinariche, al di qua e al di là della Sava, lungo il Danubio, lungo la catena dei Karpathi, in Ungheria, in Galizia, in Boemia, nella Serbia, che ha metà dei suoi sotto l’Austria, nei Romani, che hanno gran parte dei loro in Transilvania, nel Banat, in altre provincie austriache, negli Slavi meridionali che anelano a costruire una Grande Illiria, l’Italia aveva alleati presti, desiderosi, chiedenti una nostra parola, una nostra mossa d’aiuto’. L’amore del Mazzini verso la causa della libertà dei popolo italiano e di quello romeno è bene testimoniata dall’articolo scritto dal patriota rumeno Dimitrie Bratianu dopo la sua morte: ‘Ho il diritto, mi sento in dovere di dire a chi non abbia avuto la fortuna di conoscere Mazzini di persona, cosa sia stato quel grande uomo che per quasi mezzo secolo personificò il movimento di emancipazione di tutti i popoli. Mezzo secolo durante il quale tutti coloro che lottavano per la libertà e la nazionalità ovunque venivano chiamati mazziniani, mezzo secolo durante il quale il mondo conobbe due sole potenze, due bandiere: Mazzini, vessillo di libertà, lo zar Nicola, simbolo di dispotismo. Le circostanze fecero sì che io conoscessi quasi tutti gli uomini della rivoluzione e della diplomazia europea e che anche lavorassi con alcuni di loro. In tanti ammirai le doti del cuore e dell’intelligenza; ma tutti avevano anche i difetti opposti a tali doti.
Ciascuna di quelle grandi individualità aveva sì degli aspetti luminosi, ma anche dei nei e dei lati oscuri. In Mazzini trovai l’essere più completo, più armonico; solo in lui trovai riunite tutte le qualità, anche quelle che solitamente si escludono. Mazzini era gracile di complessione, ma robusto e forte; mai lo vidi malato. La sua figura pareva scolpita nell’acciaio; aveva tratti di regolarità classica e di grazia moresca. I pensieri non lo abbandonavano un solo minuto e lo rendevano malinconico, ma la sua coscienza serena e la sua grande fede nell’avvenire dell’Italia avevano raccolto nel suo cuore un fondo infinito di letizia, e appena gli rivolgevi la parola, in un istante, senza il ben che minimo sforzo, il sorriso gli si levava sulle labbra, la fronte gli si rasserenava, gli occhi gli lacrimavano di speranza, e in un linguaggio pieno di vivacità parlava per delle ore intere e il volto gli si illuminava; il suo eloquio si animava man mano che avvertiva come crescesse la comunanza di idee e di sentimenti tra lui e l’interlocutore: il che succedeva quasi sempre’.
Anche la Chiesa Ortodossa Romena seppe sostenere i moti patriottici, offrendo ai suoi figli quella forza spirituale e umana che ha arricchito l’anelito politico di libertà
Benché le Chiese Ortodosse siano additate come Chiese Nazionaliste, cioè, radicalmente legate alla propria nazione di origine, esse hanno un carattere di universalità difficilmente percepibile dalla mentalità occidentale che tendenzialmente lega l’universalità ad organismi ‘super partes’, ad istituzioni sganciate da questo o quel dato politico o geo-storico. L’universalità per la fede Ortodossa sta in Cristo, Signore e Redentore dell’intero cosmo. Una immagine particolarmente cara alla nostra tradizione è quella del Pantocrator, cioè: del Cristo trionfante sulla morte, principio e fine di ogni cosa: l’A e l’O.
Questa Immagine, imperante, ci ricorda innanzitutto che il fine della nostra esistenza, che ha avuto il suo principio nell’immersione in Cristo (il battesimo), è il Suo regno: dunque, la nostra patria non va individuata ne circoscritta ad una o ad un’altra realtà geopolitica. Tuttavia, avendo la provvidenza dato ad ogni uomo e alla Chiesa, che è fatta anche da uomini, uno spazio e un tempo, noi, pur tenendo come meta la patria ‘celeste’, non possiamo dimenticare che l’azione di Cristo, l’annuncio del vangelo, come ogni azione orientata alla salvezza dell’uomo, si gioca qui, in questo mondo, visitato dallo stesso Figlio di Dio e santificato dallo Spirito Santo che con la sua forza, per mezzo dello stesso Signore, ci unisce al Padre. La Chiesa primitiva, che dovette confrontarsi con la cultura del tempo, che dovette comprendere il ruolo dell’autorità civile, ci ha lasciato una testimonianza efficace. Negli scritti del Nuovo Testamento, ed in particolare in Paolo e Pietro, l’invito al rispetto delle leggi, la sottomissione alle autorità, purché non siano contrarie alla legge di Dio, sembrano la strada maestra, il punto di equilibrio, in questo nostro peregrinare verso la patria celeste. San Paolo così scriveva alla comunità di Roma: Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive. Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per motivo di coscienza.
È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore; l’onore a chi l’onore (Rm 13, 1-7).
La comunità cristiana vive dunque il rispetto dell’autorità come un dovere, in quanto voluta da Dio per il nostro bene. L’Apostolo Pietro rafforza questa convinzione: Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni umana istituzione: al re, come al sovrano; ai governatori, come mandati da lui per punire i malfattori e per dar lode a quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che, facendo il bene, turiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Fate questo come uomini liberi, che non si servono della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re (1 Pt 2, 13-17). La Chiesa bizantina, prima, e le Chiese ortodosse poi, hanno fatto di queste indicazioni la propria guida nelle relazioni con le istituzioni civili. Quando si parla del rapporto tra la Chiesa e lo Stato, nella nostra Tradizione bimillenaria, si parla di sinfonia, cioè del comune pensare ed agire al servizio dell’uomo e per il suo bene. L’immagine dell’aquila con le due teste rappresenta l’unica potenza di Dio che agisce per il bene e la salvezza dell’uomo sia con il potere temporale che con quello spirituale. La tradizione ortodossa non confonde il concetto di sinfonia con la connivenza ad azioni e scelte che siano contrarie alla fede e alla promozione della dignità dell’uomo. Per questa ragione, proprio perché l’autorità è fortemente esposta a scelte anche pericolose, seguendo i Santi Apostoli nelle loro esortazioni, preghiamo per esse: Esorto dunque, prima di ogni altra cosa, che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità (1 Tm 2, 1-2). Ogni nostra azione liturgica contiene la supplica a Dio per coloro che ci governano, indipendentemente dal tipo di governo, dalla nazione a cui apparteniamo. Con questo spirito viviamo, dunque, la celebrazione del 150° dell’unità d’Italia. Il fatto che siamo di origine romena non ci dispensa dal pregare e rispettare l’autorità di quel paese con cui condividiamo le nostre storie terrene; in questo senso, pur rimanendo fortemente legati alle nostre tradizioni, ai nostri padri, ai luoghi della nostra origine anche spirituale, ci sentiamo cittadini di questo paese, che rappresenta una tappa del nostro peregrinare verso la vera patria.
Gli anni che seguirono l’unità di Italia e della Romania furono, di fatto, anni proficui da molti punti di vista: molti italiani, soprattutto del nord, emigravano in Romania per trovare lavoro (nei campi o nelle miniere o nell’industria nascente), molti viaggiavano dall’Italia verso le genti di Decebal e di Traiano per studiare, tanti dalla Romania si facevano cittadini della grande “Roma” per apprenderne la profondità storica, culturale e artistica, patrimonio storico comune dell’identità di due popoli che, ieri e oggi, sono chiamati a riproporre quei valori di amicizia e di fratellanza, di condivisione e ammirazione reciproca, per non venir meno alle antiche aspirazioni che hanno fatto dei nostri popoli, nazioni libere. Il Tricolore diventi il simbolo nelle celebrazioni di questo centenario: in esso vi è la sintesi di ciò che di più nobile e più vero caratterizza ed appartiene alle nostre nazioni, alle nostre genti, per essere ancora una volta, per l’Europa e per il mondo, ponti che uniscono le diversità, strade che ricongiungono gli uomini nella loro dignità.
Fonte: www.episcopia-italiei.it
Questi giorni si parla molto di libertà, pace, guerra – guardiamo un po’ al prezzo pagato già dai nostri fratelli –
Per chi è alla conoscenza ma non ha la più pallida idea, bisogna leggere l’articolo, ringraziando ai giornalisti investigativi che hanno dimostrato quella perla rara: l’onestà intellettuale. La verità, anche se arriva forse in ritardo ILLUMINA, schiarisce.
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Traducere proprie in italiana din originea crestina a romanilor in primul articol CarmenWebdesign
La storia del Tesoro romeno
Nov 8, 2012
Quest’anno si compiono novantotto anni da quando il Tesoro della Romania è stato affidato alla Delegazione della Russia Imperiale (14/29 dicembre 1916), con lo scopo di essere restituito al nostro paese alla fine della Prima Guerra Mondiale. Si tratta di oggetti di patrimonio e di 91,2 tonnellate d’oro, stimate oggi ad un valore di 3,2 miliardi di euro, sotto forma di monete e lingotti d’oro.
I beni di valore della Romania sono stati trasportati in Russia per essere protetti dai tedeschi, che avevano occupato una parte della Romania e che sarebbero potuti entrare in possesso anche del tesoro, dovendo, in base agli accordi stabiliti, essere restituiti alla Romania. Trasferito a Mosca durante la Prima Guerra Mondiale, il Tesoro della Romania non e mai stato completamente rimpatriato e le ufficialità russe durante i novantaquattro anni hanno accettato la discussione su questo tema soltanto sporadicamente e contestualmente.
Proponiamo ai lettori la storia del Tesoro romeno, con lo scopo di far conoscere la verità storica di un momento importante nella storia del popolo romeno.
La storia del Tesoro romeno
Ad agosto 1916, scoppiata la Prima Guerra Mondiale, la Romania è entrata a far parte dall’alleanza fra Inghilterra, Francia, Italia e Russia. Nel momento in cui gli Imperi Centrali hanno occupato il territorio della Romania , il governo romeno si è stabilito a Iasi (Moldova) cosi come anche la Banca Nazionale della Romania ha spostato la sua sede sempre li. La sicurezza delle sue riserve, costituita da metalli preziosi, non poteva essere però assicurata in quel posto, motivo per il quale il governo romeno ha deciso di trasferirle a Mosca per affidarle in custodia alla Russia. Sono stati presi in considerazione anche altri posti, il Regno Unito o Scandinavia, ma sono stati esclusi perché sono stati messi in conto dei possibili attacchi dei sottomarini tedeschi durante il loro trasporto.
L’11 dicembre 1916, il generale Mosolov ha firmato, in nome del governo della Russia, un atto di garanzia riguardo alla sicurezza del Tesoro Nazionale della Romania per ‘la parte del trasporto ed il deposito a Mosca’. Secondo il protocollo romeno russo del 14 dicembre 1916, firmato dal generale Mosolov ed il Ministro delle Finanze della Romania M. Antonescu, il Governo Imperiale della Russia garantiva il trasporto, la custodia ed il rientro del Tesoro in Romania.
Secondo i termini del protocollo, sono stati caricati 27 vagoni di treno contenenti 1738 casse con lingotti ed oggetti in oro, per un valore di 314.580.456,84 lei in oro ed altre due casse contenenti i gioielli della Regina Maria, per un valore di 7.000.000 lei in oro – per essere trasportate sotto scorta a Mosca.
Il valore totale di questo primo carico è stato di 321.580.456,84 lei in oro. Siccome, per colpa della guerra, i rischi erano in aumento in Romania, un secondo carico di tre vagoni, contenenti 188 casse, è partito da Iasi il 27 luglio 1917.
Il 27 luglio 1917 pure i fondi della Banca dei Risparmi della Romania, contenuti in 1621 casse con i depositi e gli investimenti della Banca, ma anche i gioielli, le collezioni d’arte e vari oggetti preziosi, con un valore totale di 6.500.000.000,00 lei in oro (oppure 7.500.000.000,00 lei in oro secondo alcuni documenti), sono stati trasferiti a Mosca con 21 vagoni e depositati sotto la garanzia del governo russo (riguardo, ancora, il trasporto, la custodia ed i rientro in Romania) alla Tesoreria dello Stato Russo.
Il 5 agosto 1917, gli ufficiali romeni e russi hanno firmato a Mosca un verbale riguardo la sistemazione di un nuovo deposito al Kremlino, secondo il quale la custodia e la restituzione dell’intero Tesoro in Romania sono stati garantiti dal Governo della Russia.
Perfino un inventario del deposito è stato compilato: 3.549 casse che contenevano le intere riserve in oro della Banca Nazionale della Romania, i gioielli della Regina Maria della Romania, i conti attivi della Banca di Credito e dei Risparmi appartenenti ai privati, consistenti in gioielli, titoli, documenti, testamenti, quadri ecc. Il totale globale è stato stimato a 8.416.417.177,93 lei in oro (oppure 9.416.417.177,93 lei in oro secondo alcune fonti). Per avere accesso al deposito erano necessari due codici numerici. Il primo codice numerico è stato affidato al rappresentante della Banca Nazionale della Romania, l’altro è stato trattenuto dai rappresentanti russi.
In più ai lingotti d’oro e agli atti di valore, il Tesoro mandato a Mosca comprendeva anche l’Archivio di Sato della Romania, gli archivi storici di Brasov, quadri provenienti dalla Galleria Nazionale dello Stato Romeno, dai musei e da varie collezioni private, oggetti appartenenti al ‘Monte di pietà’, collezioni di manoscritti e libri rari, la collezione numismatica dell’Accademia Romena, collezioni d’oggetti rari d’oro, d’argento e pietre preziose provenienti dal Museo Nazionale di Antichità, come anche i tesori storici e medievali dei monasteri e delle chiese dall’Oltenia, Muntenia e Moldova e delle cattedrali di Iasi e Bucarest.
Dopo la rivoluzione bolscevica del novembre 1917, il Console generale della Romania in Russia informa i governi alleati che il suo paese rischia di perdere il controllo sul suo Tesoro e cerca un modo per spostarlo in America. Però a gennaio 1918, dopo l’arrivo delle truppe romene in Basarabia, il governo sovietico dichiara guerra alla Romania, arrestando l’incaricato degli affari della Romania e l’intero organico della delegazione. La risoluzione dei Commissari del Popolo del 13 gennaio 1918 ha dichiarato il Tesoro ‘intangibile per l’oligarchia romena’ e prometteva che questo ‘sarà restituito al popolo romeno’. Questa risoluzione è stata firmata da Lenin ed è tuttora valida.
Gli interessi della Romania erano rappresentati allora dal Consolato Generale della Francia, che era entrato in possesso del codice numerico della Romania e dei documenti originali dell’Inventario. In questa qualità, il Console generale della Francia, assistito dal suo omologo inglese, è intervenuto il 1 febbraio 1918 presso il Commissario del Popolo dell’Unione Sovietica , incaricato per gli affari esteri, rappresentato dal signor Fritsche, con lo scopo di accordare protezione al Tesoro. Come risposta, il Commissario del Popolo, incaricato per gli affari esteri, ha chiesto al Console generale della Francia di consegnare il codice numerico del deposito. Il Console si è rifiutato ed ha elaborato un verbale di contestazione. Il 14 marzo 1918 il signor Fritsche ha sanzionato la richiesta del Console ed ha chiesto, a suo turno, di trasmettere , almeno temporaneamente, il codice numerico della Romania, per aprire le porte del deposito e proponeva l’ispezione del Tesoro in presenza del Console francese. Lui ha mandato al Consolato della Francia una garanzia scritta seconda la quale ‘i valori del governo romeno depositati secondo i verbali ufficiali saranno mantenuti intatti’. Dando corso a queste stipulazioni, il codice numerico della Romania è stato affidato ai rappresentanti sovietici, che hanno sottratto subito otto casse dal deposito, sostenendo che queste appartenevano all’Unione Sovietica, dopodiché il codice numerico è stato trasmesso al Console generale della Francia. Le otto casse contenevano titoli bancari emessi dalla Banca Nazionale della Romania con un valore di 1.350.000 lei in oro (oppure 1.920.00 lei in oro, secondo altre fonti).
Ad agosto 1918, il Console generale della Francia essendo stato arrestato dalle autorità sovietiche, il codice numerico del tesoro è stato trasmesso al Consolato generale della Danimarca, che rappresentava gli interessi della Francia. A quella data, gli interessi della Romania erano rappresentati dal Consolato generale della Norvegia. A febbraio 1919, il Console generale della Danimarca ha consegnato il codice numerico al Ministero degli Affari Esteri francese, ulteriormente restituito alla Romania, nel 1926.
Il problema della restituzione del Tesoro della Romania è stato evocato durante i negoziati di pace trattati a Parigi negli anni 1910-1920, durante le Conferenze Internazionali di Genova (1922) e Lausanne (1922), come anche durante le conversazioni romeno sovietiche di Copenhagen (1920), di Londra (dicembre 1920-gennaio 1921), di Varsavia (settembre 1921) e di Vienna (marzo-aprile 1924). A dispetto della decisione presa alla Conferenza economica internazionale di Genova, secondo la quale il Governo dell’Unione Sovietica doveva restituire al Governo della Romania i valori depositati a Mosca, non è stato fatto nulla in questo senso.
A giugno 1935, in seguito al ristabilimento, nel 1934, dei rapporti diplomatici tra Bucarest e Mosca, 1436 casse con documenti storici, atti fondiari, titoli di proprietà, libri, pratiche ed altri documenti privati, sono state restituite dal Governo dell’Unione Delle Repubbliche Sovietiche Socialiste, con una ripartizione di diciassette vagoni (senza la possibilità di paragonare questo carico con l’inventario originale, come prevede il ‘Rapporto riguardo l’arrivo a Bucarest degli archivi restituiti nel 1935 dal Governo sovietico’, datato 28 giugno 1935). All’apertura delle casse, si è scoperto che erano state forzate e messe a soqquadro e che i beni privati, soprattutto i gioielli, mancavano.
Una seconda parte della restituzione del Tesoro della Romania è avvenuta nel 1956, quando gli oggetti di valore artistico e storico sono stati riaffidati al Museo Nazionale di Storia della Romania, all’Istituto di Archeologia di Bucarest e alla Banca Nazionale. Il verbale sovietico del 6 agosto 1956 riguardo la restituzione dei beni storici al Governo della Repubblica Popolare Romena stipula che tutti i beni di valore, con carattere artistico e storico, della Romania, depositati nell’ Unione Delle Repubbliche Sovietiche Socialiste, sono stati identificati, esaminati ed inventariati. Quest’inventario è stato paragonato più tardi dai romeni con gli oggetti restituiti effettivamente. Secondo una fonte d’informazione, 39.320 oggetti d’arte di provenienza romena sono stati restituiti, in particolare: 1350 disegni e quadri, 156 icone, 418 tappeti, 495 oggetti religiosi o assimilati ad essi, 33.068 monete, 2.465 medaglie e 1307 altri oggetti. Complessivamente, questi oggetti corrispondevano ad una quantità poco più di 33 kilogrammi d’oro e 690 kilogrammi d’argento.
In Russia sono rimaste circa 91,2 tonnellate d’oro, valutate oggi all’incirca in 13 miliardi di lei oppure 3,2 miliardi di euro, secondo i dati presentati dalla Banca Nazionale della Romania nel 2011. Questa quantità d’oro era composta al 90% di monete d’oro e al 10% d’oro fine, sotto forma di lingotti.
A settembre 2012, l’argomento del Tesoro Romeno è stato messo in discussione nuovamente nell’ambito dell’Assemblea Parlamentare Europea, che ha deciso di adottare una risoluzione per imporre alla Russia di continuare i negoziati con gli stati europei, tra cui anche la Romania, riguardo la restituzione dei beni, delle proprietà e dei valori culturali confiscati abusivamente da questi. Secondo la delegazione della Romania, per la prima volta il Consiglio Europeo evidenzia esplicitamente questo fatto e prende in considerazione un emendamento inserito nella parte finale della risoluzione dalla rappresentanza romena.
Articolo a cura della dott.sa Lorena Curriman e Violeta Popescu
https://culturaromena.it/milano-dalla-romania-un-concerto-in-onore-del-cardinal-dionigi-tettamanzi/
Camilian Demetrescu: il perché delle radici cristiane dell’Europa (1)
Se dovessi raffigurare l’Europa cristiana di oggi in un disegno – racconta Camilian Demetrescu, pittore, scultore e incisore – farei un tronco d’albero gigante, con profonde radici nella terra, ma reciso seccamente al suolo, impietrito in una desolata cicatrice piatta e grigia, dalla quale spuntano ancora, miracolosamente, alberelli in fiore.
Abbiamo faticato per secoli a tagliare quel maestoso albero. La scure della nostra civiltà si è abbattuta contro la quercia della Grande Tradizione, ma la linfa vitale continua a salire, le nuove generazioni stanno riscoprendo le sue radici. Questi giovani sono una minoranza, è vero, ma come c’insegna il passato, la storia la fanno le minoranze. Le maggioranze la subiscono, trascinate dagli eventi. E mentre la grande Europa, sorda ai colpi della scure che continua a colpire, dorme sognando il paradiso della felicità del benessere e del superfluo, quell’altra piccola Europa, colpita dall’insonnia della coscienza, veglia. Allarmati dal vigore con cui i giovani germogli fioriscono dal tronco amputato della grande Tradizione, i boscaioli di Bruxelles sono pronti a tagliarli con la scure della nuova costituzione europea che nega le radici cristiane dell’Europa. Ma, per il momento, al rifiuto di alcuni stati di convalidare la costituzione, hanno dovuto appendere la scure al chiodo.
Eppure, grazie alla divina semplicità del Cristianesimo, l’unità spirituale dell’Europa, dei suoi popoli, non si è mai infranta nel suo profondo, nonostante le complicazioni teologali, che non una volta hanno incatenato la fede con dogmi pretestuosi, estranei all’unicità primordiale del Verbo.
Ricordo una parabola medievale, semplice, popolare: la leggenda dei pesciolini della Senna. Il fiume attraversa la città di Parigi da est a ovest. Nelle sue acque vivono due specie di pesci: i pesciolini magri che si danno un gran daffare nuotando controcorrente, verso la luce del sol levante, verso la sorgente, e i pesci grassi, sonnolenti, che si lasciano portare dal fiume verso le tenebre del ponente. Mi rivolgo a coloro che sono consapevoli della deriva del mondo di oggi. Se sentite i colpi della scure che si abbatte senza sosta sul tronco del Grande Albero, neanche voi potete fare a meno di nuotare controcorrente con tutte le vostre forze, verso la sorgente della Verità.
Le cause della deriva morale e spirituale dell’Europa sono ben conosciute, ma non da tutti. C’è chi le conosce, guardando intorno, c’è chi non le conosce – per incultura, disinteresse o malafede – c’è chi non le vuol conoscere, prigioniero del mito del progresso senza limiti.
La prima causa della deriva è la risposta stessa che la nostra civiltà ha saputo dare fini ad oggi alla proposta cristiana. Con il libero arbitrio, il più alto concetto religioso della dignità umana, è stata data all’uomo la libertà di scegliere. Ma dopo secoli di tormento e di conquiste del razionalismo, l’Europa ha detto no a Cristo. Le prove sono evidenti. Confermate da Giovanni Paolo II quando parlava del bisogno di ricristianizzare il nostro continente.
Sarebbero tante le prove di questo lungo e progressivo allontanamento dall’insegnamento evangelico originale: dalle prime eresie, dalle prime guerre di religione, dalle vecchie e nuove inquisizioni, dalle prime utopie rinascimentali, dalle riforme alle controriforme, dall’illuminismo e il giacobinismo, dal trionfo della Dea Ragione e del dubbio, dal proclama dei nuovi filosofi della morte di Dio alle utopie dei sistemi totalitari dell’ottocento e del novecento, concepite per abolire il male e l’ingiustizia con la violenza stessa, fondate sull’odio di classe e sull’odio razzista, dall’invasione del nichilismo e dell’anarchia, fino al relativismo assoluto che ha frantumato la coscienza dell’uomo. Sono soltanto alcune tappe di questo fatale rifiuto che ci ha portato nella condizione in cui ci troviamo oggi.
Da questo elenco telegrafico potrei scegliere un esempio apparentemente marginale ma significativo: il cambiamento della struttura urbanistica delle grandi città europee in questo ultimo millennio, seguendo passo per passo l’evoluzione della cultura e della politica sul nostro continente.
Se nel medio evo la Cattedrale – la cattedra del vescovo pastore spirituale – era il centro stesso della città e della vita sociale, nel rinascimento la Cattedrale sarà sostituita dal Palazzo del Principe, diventato il centro del potere e della sua corte. A sua volta, nei secoli successivi, più vicini al nostro tempo, la dimora del Principe fu rimpiazzata dal Palazzo della Borsa, la nuova cattedrale che celebra l’onnipotenza terrena dell’oro.
Con l’emancipazione illuministica e giacobina, all’inizio dell’era industriale, la città gravita invece attorno alla Fabbrica, il nuovo santuario delle utopie scientifiche del materialismo storico dell’ottocento. E infine, nei tempi moderni, avviene la dissoluzione stessa del Centro della città che gravita attorno ai cosiddetti centri storici, assumendo il significato archeologico, turistico e commerciale della metropoli di oggi.
Contemporaneamente assistiamo alla deriva dell’architettura e dell’iconografia della cattedrale stessa, nonché della semplice chiesa parrocchiale, diventate irriconoscibili rispetto agli archetipi del tempio originario. La graduale dissacrazione dell’edificio e dell’arte sacra ha cambiato radicalmente il rapporto tra chiesa e società. Alla solarità del romanico seguiva l’arte crepuscolare del gotico, per ritornare poi col rinascimento al paganesimo, arrivare nel barocco ad una esasperazione della forma che prevale sui contenuti, e, finalmente, sfociare nei tempi moderni nell’anti-arte, espressione del nichilismo e dell’ateismo imperante.
Lo svuotamento di significato simbolico dell’edificio sacro è parallelo allo svuotamento dei valori fondamentali della società. Dalla maestà della cattedrale medievale fino al freddo motel ecclesiastico a cinque stelle, di oggi, firmato da prestigiosi nomi dell’avanguardia che conta, e fino allo squallido garage per le anime – come le definisce Sedlmayr – delle parrocchie povere, la deriva sembra averci portato sull’altra sponda dell’oceano della storia. Potrei dare altri esempi, riguardanti il mutamento nelle arti figurative, dove la deriva assume contrasti ancora più devastanti, oppure nella scienza – naufragata nel puro scientismo senza etica – e ancora, nel comportamento umano scaraventato fuori da ogni scala di valori e non per ultimo, il degrado spaventoso del rapporto tra uomo e natura che mette in pericolo la sopravvivenza stessa del pianeta.
E come se non bastasse, allo scontato declino dell’occidente si aggiungeva la sciagura delle utopie totalitarie che hanno segnato la storia del novecento. Con l’instaurazione del regime marxista nel 1944 in Romania, mia Patria d’origine, la persecuzione contro la chiesa, non solo ortodossa, arrivò a forme di barbarie mai verificate nella nostra storia, nemmeno sotto il giogo ottomano. La chiesa greco-cattolica fu messa fuori legge, per essere totalmente subordinata al patriarcato di regime. Vescovi e preti furono incarcerati e molti di loro morirono nella detenzione. I beni della chiesa uniate furono confiscati, i seminari teologici chiusi. I sacerdoti che non ubbidivano al Partito comunista furono rinchiusi o deportati. Con quale animo potrei ricordare la tortura dei preti costretti dai boia a celebrare l’eucaristia con urina e materie fecali, nel famigerato carcere di Pitesti? I monasteri, quando non erano abbattuti, furono trasformati in luogo di piacere per la nomenclatura di partito.
Quando, alla fine degli anni ’70 una società biblica internazionale offrì al popolo romeno una grande quantità di Bibbie, introvabili in Romania, queste furono confiscate e riciclate in carta igienica. Ai punti di frontiera era severamente vietato introdurre la droga e la Bibbia, messe sullo stesso piano. Un sacerdote mi confidò che era arrivato al punto di suggerire ai suoi parrocchiani di non confessarsi più in chiesa, perché tenuto a riferire alla polizia politica quello che si diceva sotto confessione. Negli ultimi anni di regime, a Bucarest fu perfino proibito di suonare le campane, per non offendere la libertà di coscienza dei compagni miscredenti.
https://culturaromena.it/camilian-demetrescu-il-perche-della-radici-cristiane-2/
Offriamo ai letori la seconda parte del tratto dall’intervento di testimonianza presso il Serra Club di Roma di Camilian Demetrescu, l’artista che ad esempio ha realizzato gli arazzi che oggi decorano su invito ed accoglienza del Pontefice Benedetto XVI la Sala delle Udienze in Vaticano e Premio ‘Carta della Pace’ conferito dalla Fondazione Paolo di Tarso.
Ma non è tutto. Mentre nell’occidente si costruivano continuamente nuovi edifici di culto, pur discutibili per la perdita dei valori simbolici fondamentali, nell’est, non solo la costruzione era quasi inesistente (salvo rarissime iniziative popolari nel mondo contadino), ma i bulldozer del potere demolivano le chiese esistenti con criminale idiozia.
In Romania, più di trenta monumenti sacri – gioielli d’arte e di architettura bizantina – furono rasi al suolo senza conservare nulla del loro prestigioso corredo artistico. E ancora, per ingannare il Fondo Mondiale dei Monumenti, chiese appartenenti al patrimonio universale furono caricate su rulli e traslocate con tecniche costosissime, per nasconderle dietro i casermoni dell’orrenda edilizia di regime. Ho visto il documento filmato di nascosto di una messa svolta fra le macerie di una chiesa appena abbattuta: gente inginocchiata, con candele accese in mano e il sacerdote in piedi, fra le rovine, che celebrava la messa, circondati da agenti della securitate pronti ad intervenire per reprimere i “rivoltosi”. Il comunismo era riuscito a distruggerne i muri delle chiesa, ma non le pietre viventi che la compongono. Anzi, più colpiva la materia, più si rafforzava lo spirito. Dalle macerie della dittatura atea la fede è uscita più salda di prima.
Che succedeva invece nel libero occidente? Nessuno toccava i muri delle cattedrali che stanno tuttora splendidamente in piedi. Eppure, la chiesa sta crollando dentro le coscienze. Parlando dei cristiani battezzati che disertano i luoghi di culto, il Papa Giovanni Paolo II li chiama “cristiani invisibili, cristiani muti, cristiani che vivono come se Dio non esistesse”. E non sono stati i rozzi barbari della dittatura del proletariato a demolire la chiesa d’occidente, ma i suoi squisiti filosofi, i suoi liberi pensatori ed “umanisti” che hanno decretato la morte di Dio, avviando l’abbattimento della chiesa di Cristo nella mente umana, con la collaborazione anche, purtroppo, di un certo illuminismo clericale.
Dopo la caduta del muro di Berlino il degrado dello spazio sacro nel mondo cristiano appare ancora più desolante. L’assenza di una cultura del simbolo, affogata in un mare di sigle e segni insignificanti, che nulla hanno a che fare col simbolismo della Grande Tradizione, ha messo in crisi il rapporto dell’uomo con l’arte e l’architettura delle chiese moderne. La nuova iconografia, alienata da un astrattismo che contraddice il senso stesso dell’incarnazione, dilaga nei luoghi di culto. Molti parroci si sono adeguati a questa forma assurda d’arte cosiddetta cristiana, ignorando la funzione di catechesi visiva del simbolo.
La crisi attuale dell’arte sacra, o di ispirazione cristiana, e resa ancora più conflittuale, da una parte dall’abbandono della tradizione a favore dell’astrattismo e di altri “ismi” moderni, dall’altra parte da un fanatismo dogmatico intollerante ad ogni forma di rinnovamento ed arricchimento del lessico iconografico. Esistono nei testi sacri, come per es. nell’Apocalisse, molti simboli non raffigurati ancora dagli artisti. Che cosa sarebbe diventata l’arte italiana se a Giotto fosse stato vietato di andare oltre Cimabue, impedendo il rinnovamento nella continuità della Grande Tradizione?
Oggi, la scarsa conoscenza del linguaggio simbolico (nemmeno nei seminari teologici si studia il simbolo, limitandosi ad un simbolismo liturgico elementare) l’ignoranza palese del favoloso tesoro dei simboli della Bibbia di poveri, che la grande medievalista Marie Madeleine Davy definisce “le pietre miliari del cammino verso la Verità cristiana” – incita ad aberranti accuse di esoterismo, di subdole intenzioni massoniche, di satanismo ed altre perversioni eretiche.
Il contadino analfabeta del medioevo conosceva i simboli della Bibbia dei poveri, scolpiti nella pietra delle cattedrali – meglio degli scienziati di oggi. Nessuno avrebbe potuto ignorare che l’immagine di una donna dal cui sesso escono due serpenti significa la depravazione, la lussuria. Dio e il demonio erano sempre raffigurati in un binomio che interpretava il conflitto tra il bene e il male. Oggi, in nome di un cosiddetto realismo iconografico, si grida allo scandalo se l’arte osa raffigurare, accanto ai simboli hierofanici, benefici, della vita, il simbolo del diavolo che minaccia l’uomo e il creato, esorcizzandolo come se non esistesse. E soprattutto oggi, quando ad ogni passo sentiamo la sua presenza malefica.
Incapace di capire la vera intenzione dell’artista nel riproporre il linguaggio dimenticato dei simboli, l’ignoranza e l’incompetenza si scatenano accusandolo di complicità con le forze maligne che vogliono distruggere la chiesa di Cristo. La colpa, prima di tutto, non è soltanto loro, ma dell’insegnamento e della povertà educativa dei media, in una società che dispone di sofisticati strumenti tecnologici di comunicazione intellettuale, utilizzati invece ad altri scopi di lucro.
Torniamo al tema del nostro incontro. All’est come all’ovest, dalle macerie del totalitarismo politico ed economico, dai gulag comunisti a quelli del consumismo obbligatorio del capitalismo, spunta nelle coscienze il desiderio di riconsacrare quel piccolo spazio spirituale chiamato chiesa, dentro questo immenso spazio-silos della nostra civiltà materialistica e caotica.
Ricordo che, nel 1989, eliminato Ceausescu, un giornalista mi chiese: “E adesso, che cosa farete voi, intellettuali dell’est, dopo la caduta del comunismo?” Risposi: “Dopo il fallimento del mito di un comunismo dal volto umano, noi dell’est e voi dell’ovest dobbiamo costruire insieme una democrazia dal volto umano”. Imbarazzato, mi disse: “Che cosa intendi per “volto umano”? “Semplicemente un volto in cui si rispecchi la matrice divina dell’uomo”. Poi aggiunsi: “E’ vero, la democrazia occidentale garantisce alcuni diritti civili ai cittadini, ma è ancora lontana dall’avere un volto umano”. “Perché?” replicò. “Perché il volto dell’uomo d’oggi è degradato, e per costruire una democrazia dal volto umano bisogna ricostruire l’uomo stesso; rimettere insieme le parti di un uomo fatto a pezzi da quattro secoli di vari umanesimi, di vari illuminismi, di vari progetti di utopie più o meno scientifiche”.
La ricostruzione dell’uomo… Mi vengono i brividi pensando a tutta quella ingegneria antropologica che nel comunismo doveva edificare “l’uomo nuovo” destinato ad abitare felicemente le caserme dell’utopia totalitaria. Non si tratta di questo. Non è lo Stato e la politica che devono cambiare l’uomo. Solo la persona può ricostruire se stessa, per diventare quello che San Paolo chiama in verità un uomo nuovo.
In occidente si pensa ancora che si può cambiare l’uomo con le leggi. Immaginate un decreto che dice “Da domani tutti dovete amare il prossimo come voi stessi”, oppure “Da domani nessuno potrà uccidere il suo prossimo”. Nella mia ultima mostra retrospettiva a Santa Maria degli Angeli di Roma, intitolata “Hierofanie – tra speranza e nichilismo” un giovane mi chiedeva: “Che strada dobbiamo prendere, maestro?” Gli risposi: “Voi, la vostra generazione vi trovate oggi, dopo la fine delle ideologie, ad un bivio con solo due alternative: da una parte il gran viale, l’autostrada che porta al nichilismo, alla cultura del No, dall’altra il sentiero della cultura spirituale, del Si, che riconduce a Dio. Dovete scegliere. Capisco la difficoltà. L’autostrada è veloce, accattivante, ma non porta da nessuna parte, finisce nella cloaca magna della delusione. Il sentiero invece è stretto ma porta lontano. La maggior parte prenderà, forse, l’autostrada. Voi, che cosa farete?
Con questa riflessione, concludo. Perché anche noi, che non siamo più tanto giovani, possiamo ancora prendere la via stretta e faticosa. Per cambiare.
Fonte: Discorso tratto dall’intervento di testimonianza presso il Serra Club di Roma di Camilian Demetrescu, l’artista che ad esempio ha realizzato gli arazzi che oggi decorano su invito ed accoglienza del Pontefice Benedetto XVI la Sala delle Udienze in Vaticano e Premio ‘Carta della Pace’ conferito dalla Fondazione Paolo di Tarso.
Ovunque andiamo siamo guardati, giudicati, catalogati perché arrivati “da fuori”, “siamo dall’estero” e meno male che Dio fa soffiare lo Spirito dove e quando vuole. Chi ci guarda e non ha nessuna conoscenza della Romania, confonde ogni atto che va fatto da un romeno, con l’intera nazione, sbagliatamente, ma non riflettendo che nella stessa maniera, lo straniero può confondere la nazione con la m_ _ _ _ Chi è saggio, non lo farà mai, perché ogni nazione ha suoi crocifissi, crocifissori e suoi Giuda, ricordiamocelo, sempre. Visto, considerato, anche noi “giudichiamo” quello che vediamo, onde possiamo, correggiamo, chi sta zitto in certe circostanze, acconsente. Purtroppo non ci siamo riusciti a farci rispettare nel campo del lavoro (almeno dei lavoratori domestici, l’omertà ha coperto la menzogna) e bisogna farsi e far rispettare ANCHE PER RUMENI quello che la legge, CCNL di categoria già contiene.
Dunque, terra terra, sappiamo tutti che siamo guardati, interpretati come un unico corpo, sono rumeni e basta, ed è per questo che ogni SBAGLIO, ha doppia valenza: colpisce la comunità in sé e la nazione, purché all’estero. Non diamo motivo di pianto ai genitori, sporcando il loro nome, ma nemmeno della nazione, poiché è una nazione che fu già di suo, ben poco considearata nel passato. Romania, nella sua storia ha fatto da scudo per molti mali che potevano nuocere all’Europa, conosciamo bene il nostro passato. Romania non ha mai presentato IL CONTO al tavolo delle trattative, ha pagato tutto di tasca propria, Dio ne avrà in conto il credito.
Lasciamo segno, speriamo buon segno alla nostra partenza … laddove Dio vorrà mandarci …
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