Uno sguardo al passato, italiani e la loro fede in America, 1905 …
Il Miracolo di Torino e la chiesa del Corpus Domini, Torino 2007, testi di Mons. Carlo Chiavazza, Venaria.
I Santi del Corpus Domini * TORINO
San Giuseppe Benedetto Cottolengo
Nato a Bra (Cuneo) il 3 maggio 1786, fu ordinato sacerdote l’8 giugno 1811. Fu fatto poi Canonico della chiesa del Corpus Domini. Il Santo per quattordici anni ha pregato, ha celebrato l’Eucaristia, ha predicato e confessato nella chiesa del Miracolo. Nel pomeriggio di domenica 2 settembre 1827 il Canonico Cottolengo viene chiamato per amministrare gli ultimi Sacramenti ad una morente. La donna è la Signora Gonnet, madre di quattro figli in attesa del quinto. È in viaggio con il marito da Milano a Lione. A Torino cade ammalata; ma negli ospedali non viene accolta e così muore. Il Canonico Cottolengo, testimone di questo triste episodio, è scosso profondamente.
Rientra in Chiesa e pregando davanti all’Altare della Madonna delle Grazie, ha l’ispirazione di fare qualche cosa per evitare il ripetersi di simili casi: “La grazia è fatta … benedetta la Santa Madonna” dice, ritornando in sacrestia.
Il quadretto della Madonna, copia del quadro della Madonna delle Grazie che era già stato posseduto a Roma da San Filippo Neri, fu qui collocato dal beato Sebastiano Valfré.
A ricordare lo storico evento, all’altare della Venerata Madonna delle Grazie, è collocata una statua in bronzo del Santo, opera dell’insigne scultore Calandra e alla colonna un’epigrafe “Di qui pregando San Giuseppe Benedetto Cottolengo sorse Padre e Fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza – Domenica 2 settembre 1827”. Il 17 gennaio 1828, si aprì presso la famosa “Volta Rossa” (attuale Via Palazzo di Città 19) una piccola infermeria, dove accolse subito gli ammalati esclusi dagli altri ospedali. Ma nel settembre 1831 questo “ospedaletto” deve chiudere per timore del colera. La Piccola Casa della Divina Provvidenza, detta popolarmente il Cottolengo, riprende la sua attività il 27 aprile 1832 in località Valdocco. Il Santo morirà a Chieri (Torino) il 30 aprile 1842: aveva 56 anni. Fu proclamato Santo dal Papa Pio XI il 19 marzo 1934.
BEATO SEBASTIANO VALFRÉ
Nacque a Verduno nel 1629. Animatore dell’Oratorio Filippino torinese ai suoi primordini, membro della Facoltà di Teologia nell’Università, fu uno dei protagonisti della vita ecclesiale in Torino e nel Piemonte. Maestro del clero, missionario, catechista, organizzatore dell’apostolato laicale, padre dei poveri.
Mori a Torino nel 1710. Il suo corpo è nella chiesa di S. Filippo. Il beato è stato il primo rettore della chiesa del Corpus Domini e ha donato il venerato quadro della Madonna delle Grazie.
BEATA ANNA MICHELOTTI
Nacque il 29 agosto 1843 ad Annecy da padre originario di Almese. Si formò alla scuola spirituale del grande conterraneo San Francesco di Sales, unendo una forte tensione interiore di preghiera e di contemplazione all’impegno verso i più deboli e più emarginati. Venuta a Torino si dedicò alla cura gratuita a domicilio degli ammalati privi di ogni assistenza. Fondò, secondo questo ideale, la Congregazione delle Piccole Serve del Sacro Cuore di Gesù e degli ammalati poveri. Mori a Torino il 10 febbraio 1888. Per sette anni la Beata e la sua opera alloggiarono al terzo piano di una casa situata sulla piazzetta del Corpus Domini.
SAN GIUSEPPE MARELLO
Nacque a Torino nel 1844. Fu apostolo dei giovani e padre dei poveri, per questi scopi fondò nel 1878 la Congregazione degli Oblati di San Giuseppe che oggi opera in Italia e all’estero. Nel 1889 fu consacrato vescovo di Acqui. Morì santamente a Savona nel 1895. Il Santo è stato batezzato nella chiesa del Corpus Domini il 26 dicembre 1844.
I tre quadri raffigurano, da sinistra a destra, i beati Anna Michelotti, Sebastiano Valfré e S. Giuseppe Marello. Interno Chiesa Corpus Domini Torino
Il mistero cristiano non è contro, ma oltre la ragione. La scala della scienza è come quella di Giacobbe: finisce ai piedi di Dio. Varcare la soglia del mistero è concesso solo alla fede. La scienza da sola non può che ingrandire la nostra gabbia, solo la fede è capace di aprirla. <<Un po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a Lui>> (L. Pasteur).
Morale cristiana, bisogna comprendere alcune cose che oggi qualcuno vuole cancellare …
- Disperdere le ceneri dei morti?
Adesso c’è persino una legge, che permette di disperdere le ceneri dei defunti, oppure di conservarle in casa. Che ne pensa padre?
Si tratta di possibilità che, in prospettiva, possono avere rilevanti ricadute culturali: anche se, di per sé, nessuna è incompatibile con l’ortodossia cattolica: a meno che venga scelta apposta per negare la fede.
Quindi per il cristiano non fa problema la dispersione delle ceneri dei defunti?
No, il problema c’è, perché esiste anche una cultura, cioè un modo di pensare e di vivere che non è mai indifferente per la fede, perché può esprimerla, sostenerla: oppure ostacolarla, contradirla … Ed è soprattutto sul versante culturale che, sia la conservazione privata delle ceneri, sia ancor più la loro dispersione meritano attenta valutazione, perché sconvolgono radicalmente un modo consolidato di trattare i morti, soprattutto in ambiente cristiano.
La dispersione delle ceneri è sempre stata esclusa dai cristiani?
Fin dai primi secoli i cristiani hanno avuto cura di conservare i loro morti in sepolcri degni, avendo come modello la sepoltura di Gesù, il primo seme gettato on terra in vista della risurrezione. La Chiesa, dopo aver accolto i credenti nel suo seno da vivi, si è ben presto fatta custode delle loro spoglie dormienti. È nato così il cimitero, parola inventata dai cristiani, quale possibilità offerta a tutti di un dormitorio collettivo in vista del comune risveglio.
Ma neanche il mondo pagano disperdeva le ceneri?
Non esiste popolo antico, che non manifesti sentimenti di pietà verso i propri defunti e cura nell’onorare dopo la morte i loro corpi, con degna sepoltura. La stessa incinerazione, che troviamo nella Grecia classica e in Roma, non rappresentava la distruzione dei resti umani, ma un modo di conservazione. Non per nulla le ceneri erano custodite in urne preziose.
Ma, padre, siamo realisti: si finisce tutti dispersi; se no, quanti cimiteri dovrebbero esserci oggi nel mondo? Che cosa cambia, se si fa subito ciò che comunque accadrà?
Per come siamo fatti, è ben diverso che la stessa cosa accada, magari mio malgrado, oppure che la persegua deliberatamente. Ai gesti che facciamo con scienza e coscienza, diamo infatti sempre anche un significato. A differenza degli animali, siamo esseri simbolici. Appiccichiamo, ad esempio, le labbra su una faccia, o su un muso, e lo chiamiamo “bacio”, segno di affetto.
E che cosa può significare il gesto di disperdere le ceneri?
Il gesto del disperdere manda intuitivamente il messaggio dello sbarazzarsi in modo definitivo, fino a non poter più rintracciare. A partire da questo messaggio-base, la dispersione delle ceneri può essere letta in tanti modi: ad esempio, nel nostro contesto culturale, come un ulteriore tentativo di occultare la morte, oppure di accogliere visioni religiose diverse da quella cristiana …
Che c’entra la dispersione delle ceneri con l’occultamento della morte?
La dispersione delle ceneri potrebbe risultare l’ultimo passo di un lungo processo teso a rendere la morte sempre più culturalmente insignificante e socialmente invisibile. Non riuscendo ancora ad abolire la morte, si autorizza a volatilizzare i morti, eliminandone ogni traccia, ceneri comprese.
Finché si occulta solo la morte … L’importante, padre, è non occultare la vita!
Ma è proprio questa la posta in gioco. Non guardare in faccia la morte, significa rinunciare a guardare dove va la vita; il che è un’enormità, a pensarci. L’uomo, assetato di conoscere, rifiuta proprio di guardare dentro al suo esito finale. Ma, se non voglio pensare alla meta e cioè alla morte, perdo la capacità di discernere ciò che conta o non conta nel viaggio, cioè nella vita, compromettendo così un mucchio di altri valori, che fanno ricca la coscienza personale.
E quali sarebbero questi valori?
Dalla fatica del vivere quotidiano deriva il detto: <ogni giorno si muore un po’ >. Vivendo senza voler sapere della morte, si rischia da un lato di diventare privi di coraggio e quindi poco propensi ad intraprendere, cioè ad affrontare e risolvere problemi, per darsi un futuro …
E dall’altro lato?
Crescere e vivere senza sapere della morte, il nostro limite insormontabile, comporta, inoltre, il rischio di perdere semplicemente il senso del limite, del fatto cioè che siamo creature, col conseguente rischio di essere preda dell’illusione di onnipotenza! E si sa di quanti mali sia foriera la falsa onnipotenza degli uomini … Rimuovendo la morte con la sua ritualità, c’è il pericolo di smarrire la pietà, la compassione, come valori da porre al centro della civile convivenza, nella lucida consapevolezza che prima della morte c’è per l’uomo il morire, per cui il non essere eternamente sano, bello e giovane; l’essere condizionato da “handicaps”; il disfarsi …è esperienza comune e inevitabile in questa esistenza.
Lei però ha anche detto che la dispersione delle ceneri può essere letta come voglia di aprirsi a visioni religiose non cristiane …
Sì, e mi riferisco sia alle visioni religiose dell’estremo Oriente; sia di più ancora, al “New Age”, a cui, nonostante il numero contenuto di aderenti, guardano con simpatia moltissime persone, soprattutto del mondo occidentale.
E che collegamento si sarebbe tra “New Age” e dispersione delle ceneri?
Il “New Age” vede la realtà come un’armonia di cui fanno parte, senza alcuna distinzione, Dio, L’uomo, la natura, la terra. Morire sarebbe, nel caso, solo un evento illusorio, mentre in realtà si tratterebbe di un continuo fluire di viaggi e di passaggi in differenti stadi di esistenza, o di ritorni alla fonte energetico-spirituale primaria. Il gesto di disperdere le ceneri di un defunto è del tutto in linea con questi modi di vedere, che però ridimensionano pesantemente l’uomo e uccidono la speranza.
E perché ridimensionano l’uomo?
Disperdono le ceneri, è come se dicessi, che io nel creato sono come una meteora destinata a non essere più presente in nessun luogo, a non lasciare nessun segno ai posteri, a rifondermi nel tutto, che, di conseguenza, vale più di me, singolo. E così è indebolita l’idea del valore e dell’originalità unica, irrepetibile e insopprimibile della persona dotata di diritti inalienabili, che Dio per primo rispetta; idea che è alla radice della democrazia, che, vedi caso, non è nata nei contesti culturali che hanno un concetto evanescente di persona.
E in che senso uccidono la speranza?
La speranza è la certezza di un futuro promettente e per questo è la mola della vita. E che futuro promettente ci può mai essere, se la morte è vista come porta aperta su un nulla pronto ad ingoiarci? Solo se c’è la certezza che la morte non è dispersione, ma approdo alla pienezza di vita eterna personale, la si può chiamare francescanamente “sorella”, che alla serenità della vita non toglie nulla; anzi, dà tutto.
Lei però finora ha ragionato sulla dispersione delle ceneri, dimenticandosi di chi semplicemente vuole conservarle in casa.
Direi che il gesto della dispersione delle ceneri ha un ottimo preludio in quello della loro conservazione privata, a cui in qualche modo si collega. Entrambi infatti comportano l’eliminazione della tomba e dei cimiteri, luoghi per eccellenza della memoria e della pietà collettiva verso i defunti.
E con ciò?
Proprio il culto dei morti, che, distinguendo l’uomo dagli animali, ha portato a curare i loro sepolcri, ci ha consentito di conoscere la storia dell’umanità e delle civiltà antiche. Se la catena del ricordo si spezza; se la continuità di una specifica società viene interrotta, sparirà contemporaneamente anche il senso di tutto ciò che i suoi membri hanno fatto nel corso dei millenni; di tutto ciò che hanno giudicato prezioso. Il modo in cui custodiamo il ricordo di chi ci ha preceduto, ha a che fare con le nostre radici e con il nostro futuro. Senza memoria una comunità muore. Tramandare la memoria dei defunti alle nuove generazioni significa tramandare la propria identità. E nell’era della globalizzazione, anche culturale, senza identità chiara, non c’è integrazione, c’è solo la deriva dell’annessione, della colonizzazione da parte di chi l’identità ce l’ha e la cura.
E che direbbe, padre, a chi sceglie la dispersione delle ceneri semplicemente per non pesare sulla vita o sul portafoglio di chi resta. Oppure per motivi ecologici; oppure, ancora, per non rubare spazio ai vivi?
Bisogna riflettere bene sui valori che si promuovono e su quelli che si penalizzano. La ricchezza di valori, che viene dalla memoria viva e pubblica dei defunti, permette di tutelare al meglio anche i valori che con la dispersione delle ceneri si vorrebbero difendere. Sono infatti il consumismo imperante, con la cultura dell’”usa e getta”, l’ansia egocentrica del vivere, l’indifferenza etica e religiosa che, da un lato inducono a cancellare, con la dispersione delle ceneri, la pietà e la memoria per i defunti, mentre dall’altro divorano spazio, inquinano e rendono frenetica la vita. Del resto, per altre cose spazio, disturbo, spese ed ecologia non fanno problema.
Una prova?
Intanto mi piacerebbe sapere, se la cenere da lega goda della stessa libertà di dispersione, delle ceneri da cadavere (mare, bosco, montagna, fiumi, laghi …). In ogni caso mi fa pensare il fatto che proprio la Regione Piemonte mentre, tramite il suo consiglio nel 2007 ha legiferato in merito alla dispersione delle ceneri, tramite la sua giunta nel 2001 (<<Gazzetta Ufficiale>> del 27 ottobre) ha emanato un decreto che riguarda i cimiteri per gli animali d’affezione. Il luogo per l’eterno riposo degli animali, denominato <<Il parco degli animali>> è un verdeggiante prato inglese di 5.000 mq. – situato a 15 km. Da Torino (Piobesi), su cui si snodano vialetti ricoperti di ghiaia, affiancati da panchine. Su ciascuna tomba è posata una targa con la foto della bestiola e la dedica della famiglia che se ne prendeva cura, affiancata da un colorato mazzolino di fiori freschi. Il tutto dirimpetto al cimitero degli “umani”.
E allora che fare, padre, soprattutto se si hanno a cuore le sorti della propria fede cristiana?
Innanzitutto, direi, tutelare e promuovere il senso, il decoro e la praticabilità (anche economica) dell’antichissimo rito dell’inumazione, respingendo al mittente i tentativi di presentarlo come antiecologico e antiigienico.
E poi?
Non cessare mai di inculcare la fede ed essere più svegli e critici, nel leggere i segni dei tempi. Siamo troppo lenti a intuire le ricadute culturali di certe scelte o concessioni e i guasti che certe mode possono portare alla fede. Non si può andare all’infinito nel distinguere ciò che faccio, dall’intenzione con cui lo faccio. Certi gesti mandano un messaggio di per sé, a prescindere dall’intenzione. E quello di disperdere le ceneri non è di sicuro appropriato, per attestare e comunicare tutto ciò che il cristiano dovrebbe credere sul morire e sul destino di vita eterna, che attende i defunti. Più si aspetta a mettere certi paletti, più c’è il rischio di dover ricorrere in futuro a vaste e demolitrici amputazioni!
E che vuol dire “inculcare la fede”?
Penso al comportamento dei primi cristiani. Di fronte ad una cultura che diceva praticamente niente della loro fede, non si sono né lasciati intimidire, né rasseganti alla sudditanza culturale, ma, senza iattanza, si sono ingegnati a produrre costumi che in ogni momento della vita, dal nascere al morire, dicessero e sostenessero senza equivoci la loro fede. Così dovremmo ricominciare a fare anche noi. È urgente ripulire i sobri e toccanti riti delle esequie cristiane dalle tante incrostazioni pagane che stanno lentamente sfigurandoli e rendendoli, a volte, plateali, sguaiati, letteralmente impresentabili. Sempre nel rispetto della dialettica democratica, dobbiamo avere l’ambizione che la cultura si esprima con l’alfabeto della fede cristiana: anziché permettere, o addirittura contribuire a che la vita di fede, pienamente coerente, sia sacrificata alla cultura, alla moda, con il pretesto di non voler essere intolleranti.
Don Mario – testo dalla rivista del Santuario “Gli esempi e le grazie di Santa Rita da Cascia” a Torino
“Parlando di defunti e San Giovanni Bosco …”
- <<VENUTI DALL’ALDILA’>>
di Giuseppe Pasquali, sacerdote paolino, scrittore di agiografia
<<Perché siete venuto?>>
Un uomo sui trentacinque anni, vedovo, padre di due figli, viveva in Torino ai tempi di san Giovanni Bosco. Conduceva una vita tutt’altro che degna di un cristiano: irreligioso, bestemmiatore. Avvicinandosi il 2 novembre, giorno della commemorazione di tutti i defunti, sua madre gli disse:
– Ricordati del tuo povero padre (morto già da vari anni), e prega per lui.
Parole che lo stizzirono. Rispose :
– Che pregare? Se è all’Inferno o in Paradiso non ha più bisogno delle nostre preghiere; se è in Purgatorio, a suo tempo uscirà.
La madre, amareggiata, non osò replicare.
La notte seguente, parve alla donna di udire qualche strano rumore nella camera del figlio. Al mattino, vedendolo stravolto come chi avesse passato una cattiva nottata, gli disse:
– Stanotte mi è parso di udire un certo rumore nella tua camera . . .
– Che rumore?! Voi donne siete piene di superstizioni, delle quali i preti vi riempiono la testa.
Troncò il discorso, prese il capello e bruscamente uscì di casa.
La madre si persuase che il figlio aveva passato davvero qualche brutto momento. All’avvicinarsi della sera l’uomo sembrò preoccupato. All’ora solita si ritirò in camera. In realtà strani rumori li aveva uditi anche lui la notte precedente. Non era un tipo pauroso. Tuttavia prima di mettersi a letto esaminò accuratamente ogni angolo della stanza per assicurarsi che nulla potesse produrre qualche insolito fenomeno; tolse e rimise i mobili al loro posto, guardò sotto il letto, e si coricò.
Dinanzi alla finestra, all’esterno, correva un lungo ballatoio che dava accesso ad altre stanze. Il letto era posto di fronte alla finestra. Quella sera era illuminata dal chiarore pallido della luna. A un tratto udì qualche passo strascicato che gli fece pensare a quello di suo padre quando passeggiava per casa in pantofole. Si alza a sedere sul letto, impaurito, e osserva con gli occhi sbarrati il ballatoio dal quale veniva lo strascico dei passi. Ed ecco al di là della finestra passar l’ombra di suo padre: proprio lui, il suo vestito, la sua statura, il suo modo di camminare. Andò oltre e poi ripassò dinanzi alla finestra ritornando indietro. Poi l’ombra si ferma dinanzi all’invetriata, e dopo qualche momento, benché quella rimanesse chiusa, entra nella stanza e si mette a passeggiare su e giù ai piedi del letto. In preda all’ansia, quell’uomo trova il coraggio di domandare:
– Papà, avete bisogno di qualche cosa da me?
Nessuna risposta; l’ombra continua a passeggiare. Dopo qualche istante il figlio riprende:
– Papà, avete bisogno di preghiere? Ditemelo!
Il padre si ferma, si volge al figlio e con voce fioca risponde:
– Io non ho bisogno di nulla.
– Ma dunque, perché siete venuto?
– Son venuto per dirti che è tempo di finirla con gli scandali che dai ai tuoi figli, quelle anime semplici che tu avresti dovuto conservare innocenti. Quei poveretti imparano da te bestemmia, l’irreligione, il disprezzo della Chiesa e i suoi ministri, la condotta scostumata. Sono venuto per dirti che Dio è disgustato e tanto offeso, e che se tu non ti emendi saprai fra poco quanto pesino i suoi castighi. No, non pregare per me; a suo tempo, come dici tu, uscirò dal Purgatorio. Pensa ai casi tuoi!
– Papà . . .
L’ombra, che stava per andarsene verso la finestra, si volse e disse:
– Cambia vita! E disparve.
Al mattino seguente la madre conduceva il figlio da don Bosco.
L’uomo si confessò e pianse.
Fr. Eusebio di Maria, Riflessioni sui novissimi, Ed. Sussidi , Erba (Como ) s.d., pp. 167- 170.
Nel 2000 Santa Rita ha fatto qualche viaggio, a Roma a 100 anni dalla sua canonizzazione – incontrando un altro Santo – Papa Giovanni Paolo II appena tornato da Fatima, nella terra natale dopo 500 anni in volo
“Litografia DOYEN di Torino. Nel 1897 ricorreva l’ottavo centenario del Primo Parlamento Siciliano. L’Editore Giannotta di Catania curava una pregiata pubblicazione degli studiosi locali Guglielmo Paternò Castello e Carlo Gagliani, oggi rarissima. Di notevole pregio la copertina miniata (disegnatore e incisore G. Viani), la cui stampa l’Editore commissionò alla rinomata Litografia Doyen di L. Simondetti di Torino, fondata nel 1832 e ubicata in Via Carlo Alberto n. 38. Doyen fu uno degli stabilimenti litografici più grandi e importanti d’Italia dalla metà del XIX secolo fino alla II guerra mondiale. Lo stabilimento fu fondato da Michele Doyen, litografo francese, originario di Digione, nato nel 1809; il padre era stato un veterano di Napoleone e decorato alla Baresina. Demetrio Festa, figlio di Felice Festa che aveva introdotto nel 1817 l’arte litografica in Italia, portò Michele con sé a Torino nel 1829 per lavorare nella sua tipografia. Ma il Doyen nel 1833, avendo sufficientemente appreso l’arte, in socio con un tale Michele Ajello aprì una sua litografia al n. 6 di Piazza Carignano ed ottenne il permesso ad esercitare con decreto del 3 febbraio 1834. Nello stesso anno chiama dalla Francia a lavorare con sé il fratello più giovane Leonardo. Dal 1839 riscontriamo che la ragione sociale divenne Litografia Doyen e C., divenendo intanto lo stabilimento litografico più importante di Torino, con ben 8 torchi marca Brisset e con 25 operai e 5 disegnatori alle dipendenze. Nel 1846 apre una succursale a Genova affidandone la direzione al fratello, ma nel 1850 opera la fusione dei due stabilimenti con sede a Torino e nasce la Litografia Fratelli Doyen e Compagnia di cui Michele tiene la direzione fino alla morte avvenuta nel 1861; resta titolare il fratello Leonardo fino alla morte avvenuta nel 1892. Quindi tutto passa nelle mani del figlio di Michele, Camillo Doyen autore di un trattato sulla litografia pubblicato nel 1874 e cavaliere del lavoro. Intanto già dal 1870 la sede si era spostata in Via Carlo Alberto n. 38. L’edificio di via Carlo Alberto, in muratura mista, di due piani fuori terra e con una tettoia inclinata verso l’interno, oltre la tipografia ospitava anche un appartamento. Negli anni successivi, e certamente dal 1890, la denominazione della ditta era Litografia Doyen di L. Simondetti, Torino, avendola rilevata tale Luigi Simondetti che la tenne fino alla chiusura avvenuta durante la seconda guerra mondiale in conseguenza della distruzione dei locali colpiti da una bomba incendiaria nel corso della incursione aerea dell’8 agosto 1943. Non fu mai effettuato alcun intervento di ricostruzione, ma in epoca successiva sull’area fu realizzato un fabbricato così che oggi al civico 38 si erge uno stabile di quattro piani fuori terra ad uso abitativo e commerciale. (Vincenzo Costanzo)”.
Altri Santuari a Torino
Una storia di santità ordinaria – Benedizioni, preghiere, miracoli
Ignazio di Santhià, Cappuccino – Monte dei Cappuccini di TORINO |
Per tutti, padre Ignazio divenne quindi il frate delle benedizioni. Finché ebbe in corpo la forza di scendere in mezzo al popolo di Torino, o di portarsi in chiesa e nel coro, impartì le sue benedizioni con tutta semplicità: un segno di croce, una reliquia che sfiorava la fronte, invitava le persone a unire la loro preghiera alla sua: fossero le consuete preghiere del cristiano o un atto di fede recitato col cuore. Spesso imponeva le mani sui malati accompagnando il gesto con la benedizione di san Francesco. La quantità di infermi che venivano portati anche a braccia fino a lui, specialmente di domenica, costituiva uno spettacolo toccante e impressionante. E di quante guarigioni furono testimoni le statue, i quadri e gli ori, ma soprattutto la presenza viva di Cristo e dei suoi santi, nel Santuario di Santa Maria del Monte! Quanti bambini, soprattutto, restituiti sani ai genitori!
Il caso più sconcertante fu quello di un gentiluomo che si era presentato in sacrestia distrutto dal dolore, con in braccio il figlioletto morto, chiedendo risolutamente di riaverlo vivo. Ignazio sul momento dovette impallidire come il morticino: ” Ma … signore – aveva balbettato – per chi mi prende lei? Questi miracoli si chiedono a Dio, non a un peccatore come me!”. L’altro non voleva sentire ragioni. “Io così non lo voglio – disse infine lasciando il corpicino inanimato sul pavimento – me la renda vivo o se lo tenga lei così com’è” ed era scappato in chiesa singhiozzando. Ignazio, costernato ma anche toccato da questo esempio di … fede disperata, si inginocchiò accanto al bambino, pregò un poco e poi disse: “Ma cosa fai qui, bambino? Alzati e va’ da tuo padre!” .
Quello aprì gli occhi, riprese colore, si alzò e andò a raggiungere il padre in chiesa. Il frate riuscì a far promettere a quel genitore, fuori sé per la gioia, di non svelare a nessuno l’accaduto. La promessa fu mantenuta, ma dopo la morte di Ignazio il fatto venne riferito e giurato come testimonianza valida ai Processi.
Non meno efficaci risultarono le benedizioni che Ignazio inviava “a distanza”, alle persone anche molto lontane, che non potevano raggiungere il Monte. Quando non fu più in grado di recarsi in sacrestia, prese l’abitudine di impartirle dalla cella (da quella dell’infermeria soprattutto, sua ultima residenza) al suono dell’Angelus. Di qui l’altra definizione di frate dell’Ave Maria, che tanto bene corrisponde alla sincera sensibilità mariana di Ignazio. Era sua scelta precisa quella di attribuire a Maria e ai santi, “titolati” mediatori di grazia, il merito dei benefici che piovevano abbondantemente su quanti si rivolgevano a lui. Ora inviava i malati a pregare presso l’altare di san Felice, ora imponeva di dire una novena a san Gioacchino e a sant’Anna, ora distribuiva i bigliettini con le suppliche all’Immacolata … Ma questo non serviva certo a modificare l’opinione della gente nei suoi confronti.
Lo speciale amore che aveva per la Vergine, comunque, era uno dei suoi tratti francescani più genuini. I confratelli ne erano testimoni: le feste e le conferenze specialmente dedicate alla dolce Signora erano per lui doppia festa. Se durante le peregrinazioni per Torino poteva fare una deviazione anche breve alla Consolata, non si lasciava scappare l’occasione. E quanto spesso si fermava davanti alla piccola statua della Madonna, posta lungo la salita del Monte, recitando le parole incise sulla pietra, con la supplica a Maria protettrice della città! Era una “stazione” della sua quotidiana via delle fatiche: gli dava respiro e lo sosteneva quando le forze sembravano proprio venir meno. Forse, in quei momenti, avrà ripensato anche a tutte le volte in cui da ragazzo, a Santhià, si fermava nel vicolo che fiancheggia la collegiata, a pochi passi da casa, per recitare il rosario davanti alla bella edicola della Madonna. Era uno dei luoghi dove Lorenzo si tratteneva più volentieri.
“L’obbedienza fa miracoli”
A fra Eusebio da Venaria Reale, capitò di trovarsi in imbarazzo per colpa di una nuvolosa giornata autunnale. Da bravo accolito, doveva suonare la campana alle dieci, per chiamare tutti alla messa: ma in un convento dove anche la pendola s’era scordata di funzionare, come regolarsi sulla vecchia meridiana, se il sole stava ostinatamente nascosto? “Fra Eusebio! Andate a vedere l’ora alla meridiana!” – tuona invariabilmente la voce del padre Ignazio.
Guai opporre difficoltà, o far la faccia stupita! Il novizio obbedisce: va e ritorna con la risposta pronta nell’andare: ‘Padre Maestro, la meridiana segna un bel nulla: pioggia e buio soltanto!’. Quella ragione non soddisfa il Padre. ‘ Ritornate alla meridiana e gridate al sole di uscire un istante’. Fra Eusebio ritorna fuori e grida il suo comando al sole. ‘In quel momento continuava a piovere; pure immediatamente sbucò il sole; si fermò per lo spazio di una mezza Ave Maria, e mi diede tempo di osservare la lancetta: segnava precisamente le dieci. Poi svanì senza più farsi vedere, mentre la pioggia continuò a scendere ancora per un’ora e mezzo’.
Ma Ignazio non si accontentava di ispirare il comportamento altrui: aggiungeva alle esortazioni l’esempio personale. Quante volte, nel corso della sua vita, gli capitò di testimoniare nei fatti la sua fiducia nei prodigi dell’obbedienza!
Obbediente fino alla morte”
<<A fine agosto del 1770, Ignazio cominciò a peggiorare decisamente, squassato da febbri sempre più violente. Il 19 settembre chiese l’unzione degli infermi e prima di riceverla fece anche la cosiddetta spropria, ovvero rimise nelle mani del commosso padre Ermenegildo di Villafranca tutte le poche cose che gli era stato concesso di usare in vita. Ricevette in cambio un altro genere di “bagaglio”, immateriale ma impegnativo, per quando sarebbe comparso davanti a Dio: il Guardiano gli affidò la famiglia dei frati del Monte e tutta la Provincia cappuccina piemontese (che stava vivendo, giorni difficili).
Tutti i frati si avvicendavano intorno al suo letto, sentendo che la partenza ormai era vicina. Gli chiesero (e poteva andare diversamente?) un’ultima benedizione. Ignazio, dolce e anche un po’ perplesso come tante volte era stato davanti a questo genere di richieste, disse: “Ma che ricordo posso darvi io? Che benedizione? Ecco, facciamo la santa obbedienza; Dio è colui che ci benedice”.
Nient’altro: ma come sempre, riuscì ad agire come aveva predicato. Dalla sera del 21 settembre perse l’uso della parola; ma non parve proprio agli estremi, perché padre Ermenegildo decise di ritirarsi in cella e tornare a fargli visita subito prima del mattutino. La mezzanotte si avvicinava e Ignazio, che era rimasto calmo e assorto, a un certo punto si scosse, cercando con gli occhi qualcuno intorno a sé. Aveva già detto al confessore, padre Anselmo da Lanzo, che desiderava avere la benedizione del suo superiore prima di andarsene. Perciò, il frate che in quel momento stava vegliando corse a cercare il Guardiano, per paura che Ignazio morisse senza quest’ultima consolazione. Padre Ermenegildo rispose sicuro (tanto bene conosceva il suo obbedientissimo frate): “Non dubitate, padre Ignazio non partirà senza di me!”. Andò proprio così. Il superiore si avvicinò al letto, salutò Ignazio e gli augurò buon viaggio con le parole canoniche della benedizione ai morenti. Era appena suonata la mezzanotte. I frati si erano riversati nei corridoi, prendendo la via del coro. Dopo l’ultimo amen, Ignazio spirò serenamente, senza uno spasimo, mentre già risuonava il mattutino di san Maurizio. Chissà quanta gioia gli avrà dato cantarlo in cielo, alla presenza del festeggiato>>.
Una storia di santità ordinaria, Ignazio si Santhià, Cappucino; Monica Vanin; Edizioni D’Arte Marconi – N 55, Genova, 2002.
Calendario Gregoriano
“Il calendario giuliano, stabilito nel 45 a. C. , era più lungo di poco più di 11 minuti rispetto all’anno solare e di 11 minuti in anticipo ogni anno, che fanno capo a 128 anni, un giorno. Vi era il pericolo che la data della Pasqua, fissata nel 325 al Concilio di Nicea, continuasse il suo ritardo sul Sole e cadesse nella stagione calda. Il disaccordo tra le feste liturgiche e l’anno solare non era sempre così profondo, tuttavia già nel XIII secolo ci si era preoccupati del fatto che il calendario avesse già sette giorni di anticipo sul corso del Sole. Diversi tentativi furono fatti per correggere il calendario, finché sotto il pontificato di Gregorio XIII venne nominata una commissione di dotti italiani e stranieri, presieduta dal cardinale Sirleto, per l’esame delle proposte di riforma. Venne accolto il progetto del calabrese Luigi Giglio e Gregorio XIII, con la bolla “Inter gravissimas” del 24 febbraio 1582, poté promulgare la riforma del calendario giuliano. Essa da un lato stabiliva le regole generali per governare il tempo a venire, e che di fatto sono ancora operanti nel nostro calendario attuale, d’altra parte prevedeva disposizioni ad effetto immediato, destinate a rettificare gli errori del passato, riportando l’anno civile in accordo con l’anno solare. Da quella data erano trascorsi 1257 anni e l’equinozio di primavera, che a quel tempo cadeva il 21 marzo, avveniva ormai l’11 del mese. Per ricondurre l’equinozio al 21 di marzo furono cancellati dieci giorni dal calendario: il giorno che seguiva il giovedì 4 ottobre 1582 fu il venerdì 15 ottobre. In questo modo fu mantenuta la continuità dei giorni della settimana.
L’anno 1582 si ritrovò ad avere 355 giorni e, a partire dall’ anno seguente, il 21 marzo coincise con l’equinozio di primavera. Inoltre, al fine di mantenere questa coincidenza, fu deciso di sopprimere tre giorni in 400 anni. La riforma gregoriana entrò in vigore il 15 ottobre 1582 (ex 5 ottobre) in Italia, Spagna e Portogallo. La Francia attese fino al 9 dicembre dello stesso anno, l’Olanda indugiò fino al 14 dicembre. Gli stati cattolici della Germania e della Svizzera l’accolsero nel 1584, la Polonia nel 1585, l’Ungheria nel 1587. Soprattutto negli Stati protestanti della Germania vi fu una resistenza ostinata. Essi preferivano, commentava Voltaire, “essere in disaccordo con il Sole, piuttosto che in accordo con il Papa”. L’accettarono solo nel 1700, modificando però la data della Pasqua e solo nel 1775, con ordinanza di Federico II, tutti i cristiani tedeschi tornarono a celebrare la Pasqua nello stesso giorno. Verso lo stesso periodo si allinearono l’Inghilterra e la Svezia. Gli ultimi furono i cristiani ortodossi (Russi, Greci, Bulgari, Jugoslavi), che accolsero il calendario gregoriano solo nel primo dopoguerra. Ma ancora adesso la chiesa russa celebra la Pasqua secondo il vecchio stile, talora anche cinque settimane dopo di noi.” Testo dal Calendario dell’Arma dei Carabinieri 1998
Il prof. Antonino Zichichi ci porta ancora più lontani, nel suo libro <<Tra fede e scienza>>, alla pagina 195,
III. 7 – Una grande conquista della cultura cattolica: il più preciso calendario mai elaborato – tanto per farci un’idea “Dopo un anno siamo a venti miliardi di chilometri di distanza dalla zona di spazio cosmico in cui ci si trovava l’anno precedente.
III. 8 A PROPOSITO DI OROSCOPI E SEGNI ZODIACALI – mai considerato il terzo movimento della Terra, trottola. “Siamo imbarcati su una splendida navicella spaziale. Vorremmo sapere perché naviga così come a noi sembra. Da dove viene e dove va. Naviga nello spazio cosmico dotata di caratteristiche formidabili per la nostra esistenza.
Ruota a trottola attorno a un asse che è inclinato rispetto al piano su cui vola. Se non ruotasse a trottola, non potrebbero esistere i giorni. Se non fosse per l’inclinazione non potrebbero esistere le stagioni. Viene da lontano. Poteva andare a finire dritta sul Sole. E noi non saremmo qui a parlarne.