- Alla ricerca della pace – nel Kennedismo è sempre presente l’uomo singolo con i suoi problemi, casa, figli, lavoro, di studio, di importanza personale.
” JOHN KENNEDY: Insieme noi salveremo il nostro pianeta o insieme periremo nel suo rogo. Noi possiamo salvarlo e salvarlo dobbiamo in modo da meritarci, come uomini di pace, l’eterna gratitudine dell’umanità e l’eterna benedizione del Signore. Chiediamo a Dio di poter essere degni della nostra potenza e della nostra responsabilità, di poter esercitare la nostra forza con saggezza e disciplina, e di poter tradurre in realtà nel nostro tempo e per tutti i tempi l’antico ideale della <<pace in terra agli uomini di buona volontà>>. La nostra forza non sarà mai usata per una ambizione aggressiva, servirà a mantenere la pace. Non sarà mai uno strumento di provocazione, la useremo per rendere possibile la soluzione pacifica di ogni contrasto. Riesaminiamo il nostro atteggiamento verso la pace stessa. Troppi di noi la considerano impossibile. Troppi di noi la considerano irreale, ma questa è un’idea pericolosa e disfattista: essa porta a concludere che la guerra è inevitabile, che la sorte dell’umanità è segnata, che noi siamo stretti nella massa di forze che non possiamo controllare. Non è assolutamente necessario che noi accettiamo questa opinione. I nostri problemi sono creati dall’uomo: pertanto possono essere risolti dall’uomo. E l’uomo può essere grande purché lo voglia. Nessun problema che investa il destino degli uomini è al di là della portata degli esseri umani. La ragione e lo spirito dell’uomo hanno spesso risolto appariva insolubile e riteniamo che possano farlo ancora. Concentriamoci su una pace più pratica, più facilmente raggiungibile, basata non su una subitanea rivoluzione della natura umana bensì su una graduale rivoluzione delle istituzioni umane: su una serie di concrete azioni e di efficaci accordi che RISPONDANO ALL’INTERESSE DI TUTTI. Non esiste un’unica e semplice chiave per giungere a questa pace, non esiste alcuna grandiosa o magica formula che possa essere adottata da una o due potenze. La pace vera deve essere il prodotto di molte nazioni, la somma di molti atti. Essa deve essere dinamica, non statica, e mutevole per far fronte alla sfida posta da ciascuna generazione. Ché la pace è un processo, un modo per risolvere i problemi. E’ un processo che si attua di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese, modificando gradualmente opinioni, logorando lentamente vecchie barriere, creando silenziosamente nuove strutture. E per quanto poco sensazionale sia il perseguimento della pace, tale lavoro deve continuare. Faremo la nostra parte per costruire un mondo di pace in cui i deboli siano sicuri e i forti siano giusti. Non siamo privi di risorse di fronte a questo compito, né privi di speranza circa il suo successo. Fiduciosi e senza timore, continueremo a lavorare non per una strategia di annientamento, ma per una strategia di pace.” Conclude l’autore, Damiano Bianco: “Le pallottole possono uccidere gli uomini, ma non le idee. Anche se per un momento abbiamo creduto che a Dallas e a Los Angeles fosse uccisa la speranza dell’umanità, ora crediamo fermamente che il sacrificio di John e Robert Kennedy sia un seme fecondo per il nostro futuro”.
Dal libro: <<Slogans dell’anima>> Testimonianze di S. Weil, P. Mazzolari, A.Saint- Exupéry, G Bevilacqua, M.L. King, T. Martin, L. Bloy, T. de Cardin, M. Gandhi, C. de Foucauld, J. e R. Kenney, C. Péguy, T. Merton, T. Dooley (1977, ottava edizione), Edizioni Paoline
“La civiltà di un popolo non progredisce con la ricchezza economica, ma con l’evoluzione del bene da condividere e il rispetto dei diritti di tutti, iniziando dai più deboli. La pace non si fonda sui trattati CHE FIRMANO I VINCITORI, MA SULLA MORALITA’ DEI COSTUMI, CHE OBBLIGA VINTI E VINCITORI. La guerra è l’espressione immorale e violenta del potere selvaggio sui più deboli”. Massimiliano Kolbe
“IMPERI E NAZIONI CROLLANO NON per la discutibilità delle leggi, ma per la corruzione dei costumi che le precede. Credo nell’efficacia di un progetto politico con il quale si promuova la libertà NON DI FARE ciò che ci pare e piace, ma di adempiere i doveri scritti nella coscienza naturale di tutti”. Massimiliano Kolbe
2. Teilhard de Cardin (1881 – 1955) – uno scienziato, pensatore, mistico: la saldatura ideale tra scienza e fede, visse su tutti i sentieri del mondo, con esperienze vaste e complesse
Verità delle cose
Verità per l’uomo
Diceva:
“Per più di cinquant’anni il mio lavoro, la mia fortuna, mi ha concesso di vivere, in stretto e intimo contatto professionale – sia in Europa che in Asia e in America – con quanto questi paesi disponevano, o ancora dispongono, di più significativo, di più influente, di più <germinale> si potrebbe dire, in fatto di sostanza umana.
Ebbene, grazie a questi inattesi ed eccezionali contatti che hanno permesso a me, gesuita (ossia educato nel cuore della Chiesa), di penetrare e muovermi, come a casa mia, nelle zone più attive e libere del pensiero e della ricerca, era naturale che certi aspetti poco sensibili a coloro che non hanno mai vissuto se non in uno solo dei due mondi in presenza, mi apparissero con tale evidenza da costringermi a gridare … la possibilità di credere, nello stesso tempo e fino in fondo, a Dio e al Mondo, all’uno per mezzo dell’altro.
Un tempo sembrava vi fossero per l’uomo solo due atteggiamenti possibili: amare il Cielo e la Terra. Ma ecco che si apre una terza strada: andare al cielo attraverso la terra.
Perché non vi potrebbero essere degli uomini votati al compito di dare, con la propria vita, l’esempio della santificazione generale dello sforzo umano? – degli uomini il cui ideale comune sarebbe quello di dare la loro manifestazione cosciente, completa alle possibilità o alle esigenze divine che porta in sé ogni e qualsivoglia occupazione terrestre? – degli uomini, in una parola, che nel campo del pensiero, dell’arte, dell’industria, del commercio, della politica, si impegnerebbero a dare, con lo spirito sublime che esse richiedono, le opere fondamentali che sono l’ossatura stessa della società umana?
Concepisco l’uomo come il grande fenomeno terrestre, quello in cui culminano i più grandi avvenimenti geologici e il più vasto movimento della vita.
E’ un dovere propriamente cristiano quello di crescere anche dinanzi agli uomini, e far fruttare i propri talenti, anche naturali. Potremo essere fondamentalmente, infinitamente felici soltanto in una personale unificazione con qualcosa di Personale nel Tutto, con la Personalità del Tutto. Questo è l’estremo richiamo di ciò che ha nome <amore>.
Noi abbiamo bisogno non già di un testa a testa, o di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore. L’amore è un’avventurosa conquista. Non regge, e non si sviluppa, come l’Universo stesso, se non in una perpetua scoperta.
Non disarmare mai. Tentar di provare su un altro piano, il più vero, quello sul quale la riuscita non si misura dall’espansione individuale, ma dalla fedeltà nello sforzo, per vedere attorno a sé il mondo meno duro e più umano …
Alla verità basta apparire una sola volta, in un solo spirito, perché niente mai possa impedirle d’invadere tutto e d’incendiare tutto.
La Carità non ci domanda più soltanto di curare le piaghe: essa ci incita a costruire dal basso un Mondo migliore; e a lanciarci per primi in ogni battaglia data per la crescita dell’Umanità.
Le grandi amicizie si stringono nel perseguimento di un ideale, nella difesa di una causa, nelle peripezie della ricerca. Si sviluppano molto meno per la penetrazione <di uno nell’altro>., che per un progresso a due in un mondo nuovo. E in questo l’amicizia mi sembra differire completamente dall’amore spirituale con il quale si ha l’abitudine di confonderla. L’amore passione, anche spirituale, è per natura sua esclusivo o almeno molto limitato, nel numero degli esseri che avvicina. È fondato sulla dualità. L’amicizia, per struttura, rimane aperta ad una crescente molteplicità. Scienza e fede … non potrebbero normalmente svilupparsi l’una senza l’altra; per la semplice ragione che una stessa vita anima tutte e due. Infatti, né nel suo slancio né nelle sue costruzioni, la scienza può arrivare ai limiti di se stessa senza colorarsi di mistica e senza caricarsi di fede.”
3. Dott. Tom Dooley – La fine (prendere conoscenza del tumore, raccontare quel giorno)
La fine
Nella piccola capanna della radio, un soldato mi tende un pezzetto di carta sporco e sgualcito. Mi dice che è stato spedito dal quartiere generale dell’Armata laotiana. Chiede scusa di aver tardato tanto a farmelo pervenire, la guerra sapete … Questo pezzetto di carta segnerà una svolta nella mia vita: è mezzogiorno, un sabato, è il 15 agosto 1959. Le ginocchia mi si piegano. Mi siedo su un banco e distendo la carta gualcita su un tavolo. Tento di leggere la frase. Poiché la lingua laotiana non possiede caratteri romani, nel telegramma si utilizza il francese. La parte del testo che mi è destinata mi pare incomprensibile. Domando che sia ritrasmesso. Mi si risponde che la faccenda richiederà delle ore. Insisto. Rientro. In clinica, mostro ai miei assistenti il testo incomprensibile.
Dwight Davis, uno di essi, prende una matita e ristabilisce l’ordine normale delle parole che erano state così mal tagliate. Leggo: <Da Peter Commanduras. Stop. Ritorno immediato. Stop.>
Come ha fatto questo Dwight a decifrare questo telegramma! La cosa mi pare sospetta …
Ho d’improvviso l’impressione che la terra mi si apra sotto i piedi. Per entrare immediatamente negli Stati Uniti? Ma devo andarci fra tre mesi. Perché ora, e subito? A meno che l’ambasciatore non abbia riferito al governo il mio rifiuto a lasciare il posto e che costoro abbiano dato ordine al dottor Commanduras di fare pressione su di me.
Ma perché Peter non si spiega meglio? Perché si è contentato di questo <ritorno immediato>? Sa bene che siamo circondati dalla guerra, che, domani i feriti possono affluire al mio ospedale. Non sa forse che i monti del Laos sono in fiamme?
Che cosa può esserci di tanto urgente da farmi richiamare i questo momento, mentre era previsto che sarei ripartito fra tre mesi? Non sa forse Peter che il Laos sta affogando nelle tenebre? Questo non è il momento di abbandonare il mio posto. Io ho pienamente fiducia in Peter Commanduras, capo della <Medico>, ma perché allora mandarmi questo ordine, in questo momento? Lui vive nel mondo civile. Io vivo in un altro mondo. Quel che ci separa è ben più che una serie di chilometri. Come può giudicare della opportunità dei miei atti da così lontano? Mi sembra che il rombo di un tuono. Mi sembra che le tenebre della notte invadano il mezzogiorno. <Ritorno immediato. Urgente.> Questo significa che io devo abbandonare il mio ospedale, tutto quel che ho fatto, il lavoro di un anno intero. <Urgente, ritorno, immediato …>. Le lettere del telegramma mi incendiavano l’anima e calcinavano lo spirito. Tutto quel che rimuginavo mi saliva alle labbra. Ero terribilmente inquieto. Cominciai col metter su le ipotesi peggiori: tutta la storia poteva essere il rapporto con il piccolo tumore che il dottor Van Valin mi aveva tolto dal petto? No, decisamente! Scartai questa idea come un ipotesi stupida. Quella notte mi svegliai più e più volte di soprassalto. Mi sedevo, e le ipotesi mi assalivano in fretta. Dormii pochissimo quella notte, e così la notte successiva e tutte quelle che seguirono.
La domenica telegrafai al nostro ambasciatore a Vientiane. Gli chiesi di voler mandare un aereo a prendermi. Ero imbarazzatissimo, perché, qualche giorno prima gli avevo telegrafato che mi consideravo indipendente e che avrei io stesso avvertito circa le misure da prendere in caso che la situazione si aggravasse nella regione in cui la mia équipe si trovava, ed ecco che gli avvenimenti mi costringevano a rimangiarmi la parola e a domandargli un aereo. Ma ero praticamente sicuro che l’ambasciatore sapesse tutto. Non avevo dubbi che fosse al corrente del telegramma e anche che avesse servito da intermediario fra le autorità americane e il governo laotiano.
La domenica però non arrivò alcun aereo, né il lunedì e il martedì. Nel villaggio, io andavo e venivo, avvertendo tutti quelli che incontravo, della mia prossima partenza. Non capivano; non potevano capire. Mi domandavano se avevo paura della guerra. Io mi sforzavo di far loro comprendere che dovevo rientrare e che io stesso ne ignoravo i motivi. Come spiegare a degli stranieri quello che io stesso non capivo?
Quel martedì pomeriggio il tempo era tristemente selvaggio e questa tristezza rispondeva a quella del mio cuore. Questo villaggio sporco e primitivo di una vallata sperduta dell’Asia, questo luogo di miseria, di tristezza e di malattia mi parve improvvisamente caldo e confortevole, un luogo di calma e di riposo. Non volevo lasciarlo. Non desideravo assolutamente abbandonarlo … Non volevo tornare in America. Sentii che un sentimentalismo puerile stava per invadermi e svuotarmi. Tentai di farmi una ragione: <Dooley, amico mio, tu hai scelto il tuo lavoro, ma questo lavoro non significa che tu debba restare in questo villaggio e attaccartici. Il tuo dovere è di rispondere ‘presente’ e di esercitare il tuo mestiere ovunque sia necessario>. Ma una voce interiore mi rispondeva: ”Resta nel tuo villaggio, nella sicura sensazione di essere indispensabile. La gente di qui ha bisogno di te, e tu hai bisogno che essi abbian bisogno di te…>.
Un filosofo cinese ha detto che l’uomo è come un funambolo sulla corda. Mi venne in mente quel detto. Sulla corda l’uomo avanza, attirato (da una parte) da ciò che <deve> fare e (dall’altra) da ciò che <sogna> di fare. Se riesce a stabilire l’equilibrio fra le due sollecitazioni, egli avanza senza pericolo di cadere, ma se l’una delle queste sollecitazioni è più forte che l’altra, l’uomo cadrà. Ora io dovevo continuare ad avanzare sulla corda tesa.
Mangiammo molto tardi, quel giorno, e mentre eravamo ancora a tavola, sentimmo un rombo di motore. Non si poteva sbagliare: era il rombo caratteristico di un aereo. Ci precipitammo fuori per scrutare il cielo. Nessuna schiarita in quel soffitto di nubi che il bimotore doveva infrangere per atterrare. Presi inconsciamente la piccola valigia che avevo preparato. Mi avviai alla pista di atterraggio e attesi. L’aereo descriveva ora dei cerchi al di sopra di noi come se l’accanimento dei suoi motori dovesse finire per dissipare le nubi. Bob Burns. Era solo a bordo. Gli chiesi immediatamente se sapeva cosa fosse capitato.
– Tutto quel’che so – mi rispose – è che l’ambasciatore ha ricevuto il telegramma. Mi ha detto di offrirle tutti i posti disponibili nel caso desideri condurre con lei la sua équipe.
– Ero davanti a una nuova decisione da prendere. A una nuova angoscia. Mi rivolsi a Earl e Dwight e dissi: Siete voi che dovete prendere una decisione. Potete prender l’aereo e partire con me, aspettando a Vientiane che le cose si mettano in chiaro. Oppure potere restare qui a portare avanti il lavoro da soli.
– Risposero senza esitare:
-Dottor Dooley. Vada pure. Noi restiamo qui e continuiamo il lavoro aspettandola. Ringraziai Dio di avere simili collaboratori. E tuttavia non potei impedirmi di immaginare un quadro sinistro: le loro teste fissate su delle picche lungo il campo. Un pilota francese mi aveva raccontato qualcosa di simile.
– Dwight dissipò quella terribile immagine chiedendomi:<Lo porta con Lei?> e mi tese il crocifisso, il grande crocifisso che avevo ricevuto come missionario. Era stato benedetto dal Papa.
– -Perché dovrei portarlo via ora? Lasciatelo in camera mia. E là che deve stare. Del resto, non starò lontano a lungo. Dwight, una volta ancora, si era mostrato lungimirante ma in quel momento io non avevo capito. Ero estremamente depresso, nervoso e sull’orlo della collera. I motori dell’aesreo si riaccesero con enorme fragore. L’aereo si levò in volo. Io non lasciavo con lo sguardo quei due ragazzi che restavano all’estremo confine dell’inferno rosso, con la spada della guerra sospesa sulla testa. Attorno ad essi. Le infermiere e gli interpreti, che erano venuti a dirmi arrivederci, e che mi erano parsi molto più tristi che per altre partenze. Io non capivo l’emozione e la tristezza della mia gente. In quel momento, non capivo ancora. L’aereo filava ora verso la capitale. Mi misi a parlare con Bob Burns; in poche parole gli dissi la mia angoscia, i miei timori, la mia delusione. Perché?
– Eccomi all’aeroporto di Bangkok. Alcuni amici di una compagnia aerea erano ad aspettarmi e mi condussero all’albergo in città. Appena sistemato, andai all’ufficio postale a prenotare una chiamata per l’America. Dovevo sapere, dovevo chiarire quel mistero. Quattro giorni di incertezza, era più di quanto io potessi sopportare. Non avevo praticamente preso cibo, non avevo letteralmente bevuto nulla. Questa incertezza era una vera agonia, una delle prove più dure che mi si potesse imporre.
– Il mio petto risentiva ancora dell’operazione del dottor Van Valin. Quel dolore alla spalla, l’attribuivo ora alla stanchezza per il viaggio in aereo. La sera, verso le sette, mi dissero che era impossibile mettermi in comunicazione con l’America. Presi un taxi per tornare in albergo. Mi cambiai e andai in un piccolo ristorante di Bangkok che mi era caro. La cena fu misera, e mi restò sullo stomaco. Quand’ebbi finito domandai al maître se potevo suonare al pianoforte. Tentai di dissipare così la tensione nervosa che mi torturava sforzando le mie ditta a correre sui tasti, riscaldandomi il cuore alla musica di Chopin … Ma quella sera Chopin non aveva niente da dirmi, e Schumann nemmeno. Non ero in tino con la musica tenera, aerea, leggera. Insensibilmente, scivolai verso gli accordi tumultuosi di Rachmaninov, verso la tempestosa ouverture del concerto di Ciaikovsky. Credo di aver suonato per due ore. Poi qualcuno è uscito dall’ombra ed è venuto verso di me. Doveva esser seduto da tempo a un tavolo, in un angolo. Mi disse:
-Tom, sei tu!
– Levai la testa e vidi il volto del mio caro amico Hank Miller, poi quello di sua moglie, Anna. Non ho mai provato come in quel momento, la gioia di ritrovare degli amici. Dissi immediatamente che dovevo parlare loro. Ero così sconcertato, così disperato.
Mi dissero:
-Non prendertela Tom, suonaci qualcosa di dolce, tenero, delicato. Lo tentai, ma le mie dita si rifiutavano. Avevo male al cuore, al petto, in tutta la spalla. Ero triste, stanco. Andammo a sederci al tavolo di Hank e Hank mi fissò a lungo. Poi disse:
-Tom, non ti ho mai visto in questo stato. Anche durante la guerra, persino durante le crisi più dure. Cosa c’è che non va?
Lasciai che mi esplodesse dal cuore tutta l’angoscia che pesava su di me, i fatti degli ultimi giorni, e quell’orrenda incertezza. Hank mi guardò di nuovo e mi disse con molta dolcezza:
-Io so perché stai rientrando, Tom, e voglio dirtelo.
Ero teso all’estremo, allo spasimo. Lentamente, ma con fermezza nella voce, Hank parlò.
– Mi curvai un poco, respirai profondamente e dissi in un soffio:
-Va male, Hank?
– – Quel tumore che il dottor Van Valin ti ha tolto, ha permesso di diagnosticare un tumore al secondo stadio. Non reagii. Le parole urtarono la mia testa come un pugno batte su un cuscino. Non provai nulla. Non ebbi un sentimento di abbattimento. Una strana tranquillità mi pervase: era la fine di un’angoscia: adesso sapevo … Come medico sapevo che questo melanome, al secondo stadio, era uno dei più efficaci assassini che si conoscano. Nel ricordo che ho conservato di quella sera, non vedi niente altro. So che i miei amici mi hanno condotto all’aeroporto ma non so di che cosa possiamo aver parlato. Ricordo semplicemente tutta l’amicizia che Anna mise nel suo bacio di addio, la pacca amichevole mia di Hank sulla mia spalla quando mi lasciò e le sue parole mentre salivo sull’aereo: <A presto, Tom>.
– Una notte feci un sogno. Percorrevo un sentiero che attraversava la vallata di Muong-Sing e saliva lentamente attraverso la giungla fino alla vetta della montagna di fronte a noi. I miei ragazzi mi accompagnavano e anche alcuni dei miei studenti laotani. La mia visione era nitidissima. Vidi una pagoda secolare, posata sulla insenatura della montagna. Era fatta di pietre e sormontata da una lunga freccia. Alla freccia erano attaccate le bandiere bianche delle preghiere buddiste. Minuscole campane tintinnavano al vento. Avevo visto spesso quella pagoda. Ma nel mio sogno, la scoprivo per la prima volta. Vedevo l’altare sotto il baldacchino principale, le sculture in nero e bianco, le cascatelle di campane che scendevano lungo i gradini dell’altare. Attorno alla pagoda il suolo era neo a causa di un incendio. Minuscoli personaggi andavano e venivano su questa distesa. Erano gli uomini che piantavano il riso nella terra bruciata. Doveva trattarsi del mese di maggio quando fioriscono i lillà. Ma questo tempo nel Laos è quello dell’arsura, il tempo in cui gli uomini bruciano la montagna, di notte.
– Questa certezza ebbe in me una forza di mille campane di bronzo. Ogni tristezza era sparita e anche ogni oscurità. Non avevo né rimpianti né rancori. Non facevo colpa a Dio pe il mio male, non ce l’avevo con nessuno Ero uscito dalle brume della confusione, ero nella chiara luce del mio dovere. Questa orrenda malattia – pensavo – non può andar oltre la mia carne, non può afferrare il mio spirito. Dio mi proteggerà.
– Avevo ancora la stessa brama di vivere, di svolgere un lavoro utile. Poco importava quanto tempo mi sarebbe stato concesso: uno o dieci anni. Lo avrei consacrato a liberare gli infelici dalle loro prigioni di miseria nei villaggi desolati dell’Asia e avrei dato loro tutte le mie forze. Sapevo ormai di far parte della schiera di coloro che portano il marchio della sofferenza.
– La montagna del mio sogno era una montagna bruciata e gli uomini piantavano la vitta futura nel suolo quasi morto. Il mio sogno era molto preciso e quando venne il mattino nel cielo di un blu, io sapevo qual era il significato di quel sogno, anche se nessun orecchio l’aveva udito e nessuna lingua l’aveva raccontato. Quella stessa luce che mi aveva illuminato molti anni prima, tornò a me nel mio letto d’ospedale. Dopo essermi comunicato, quel giorno (il primo di settembre) il mio Dio e il mio sogno mi tracciarono chiaramente la strada. Nel suolo bruciato della montagna, la mia montagna di tristezza, io dovevo posare il seme della mia nuova vita, dovevo continuare a vivere. E dovevo coltivare il mio campo di cereali per nutrire coloro che non erano in grado di procurarsi cibo.
– La storia di Tom Dooley non sembra una storia dei nostri tempi, essa è così piena di autentico eroismo, è così autenticamente una storia di speranza. Tom aveva le carte in regola per diventare un ottimo dottore e lo fu. Ma qualcosa cambiò nella sua vita quando a 28 anni, tenente medico della marina, partì per l’Estremo Oriente e si trovò a contatto con la tragedia del popolo vietnamita nel 1954 assistendo all’ esodo di 600.000 profughi che fuggivano dal Viet-Nam del nord. Fu un incontro con la miseria. Sotto l’imperativo evangelico del <Beati i poveri di spirito >, Tom decise di mettersi al servizio di coloro che portavano nella carne il marchio della sofferenza. Tutto si svolse dal 1954 al 1961 e dal Viet-Nam al Laos, a New York. Il senso più vivo di questa esistenza cristiana lo scopriamo nelle righe del suo diario. Tom, nostro fratello, noi speriamo che quanti leggeranno questi tuoi scritti siano vivificati dal tuo messaggio d’amore. E tanti giovani che non hanno scoperto la loro strada, si ritrovino presto all’ incrocio della fraternità.
Ronald Reagan e Santo Karol Wojtyla/ Papa Giovanni Paolo II “Se l’umanità vuole controllare un’evoluzione che le sfugge di mano, se vuole sottrarsi alla tensione materialista che guadagna terreno in una fuga disperata in avanti, se vuole assicurare lo sviluppo autentico agli uomini e ai popoli, deve rivedere radicalmente i concetti di progresso che sotto nomi diversi hanno lasciato atrofizzare i valori spirituali”.
Non può esservi amore senza giustizia (Giustizia): “Dobbiamo tendere con tutti i mezzi a questo: Che tutte le forme di ingiustizia, che si manifestano in questo nostro tempo, siano sottoposte alla comune considerazione e si rimedi davvero ad esse; e che tutti possano condurre una vita degna dell’uomo”. Papa Giovanni Paolo II
Abbiamo conquistato il cielo come gli uccelli e il mare come i pesci, MA DOBBIAMO IMPARARE A CAMMINARE SULLA TERRA COME FRATELLI. Martin Luther King
“Abbiamo conquistato il cielo come gli uccelli e il mare come i pesci, ma dobbiamo imparare a camminare sulla terra come fratelli”. Martin Luther King
“Non sono i grandi uomini che trasformano il mondo, ma i deboli e piccoli nelle mani di un Dio Grande”. Hudson Taylor