Correva l’anno 1905 … italiani in America …
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“Nonostante l’ospitalità e l’alto grado di accoglienza che contraddistingue il popolo latino americano, la Colombia degli anni ’80 e ’90 è stata caratterizzata da una percentuale di abitanti di razza caucasica presenti sul territorio, molto bassa. Per lo più erano americani ed europei che si stanziavano in quei luoghi per lavorare in cave e miniere o al servizio di grosse multinazionali interessate allo sfruttamento del sottosuolo. Qual’ era il livello d’integrazione fra i diversi popoli? Ha mai assistito a episodi di razzismo o ne è stato vittima?
A Condoto e nella regione di Istmina in generale, il livello di razzismo era molto basso. Pochi bianchi abitavano in quelle terre ed erano principalmente cercatori di metalli preziosi arrivati durante gli scavi, che venivano ben accolti e potevano vivere in pace.
Tuttavia dove c’è oro ci sono soldi e dove ci sono soldi c’è spesso violenza.”
Capitò una domenica non lontana dal periodo dell’inondazione, che mi stessi recando a Opogodò, un villaggio confinante con Condoto, per celebrare un anniversario di morte.
Mi accingevo a rientrare in paese alla sera, quando fui fermato da un gruppo di uomini armati.
Non era certo un fatto insolito, tuttavia come missionario ero conosciuto in quelle zone e solitamente i miei spostamenti avvenivano piuttosto indisturbati. “Che succede?” domandai. “Niente Reverendo, non si deve preoccupare, è una semplice ispezione”. Rientrai a casa dubbioso e l’indomani scoprii che a Opogodò vi era stata una rissa finita male: due uomini, scavatori, un americano e un africano, si sono ubriacati e, a seguito di una disputa in fatto d’oro, il bianco aveva accoltellato il nero, che ora si trovava in fin di vita.
Sparsi la voce: dovevo essere avvertito immediatamente se questi non avesse dovuto farcela, infatti se l’uomo fosse morto per mano di un bianco, in paese si sarebbe scatenata una rivolta razziale e tutti i bianchi presenti sul territorio sarebbero dovuti scappare immediatamente.
La mattina dopo il fatto, ricevetti una visita da parte degli stessi uomini armati che mi avevano minacciato qualche settimana prima durante l’alluvione. Capii quindi, chiaramente chi avevo di fronte, mi trovavo ad essere controllato da un gruppo di Cimarrònes e questo significava che dovevo prestare molta attenzione ad ogni mia azione.
“E’ morto” mi annunciarono osservandomi attentamente.
Non vi era dubbio che si trattasse di una prova, una parola, un gesto in difesa dell’uomo bianco, di colui che pensavano rappresentasse la “mia gente” e sarei morto, scelsi quindi, con molta cura , le parole.
“Voglio essere io a celebrare il funerale” risposi infine.
Mi guardarono intensamente, soppesando la mia richiesta. “Bene. Verremo a prenderla” decretarono infine.
Il mattino dopo trovai un jeep ad attendermi, io mi sedetti davanti, guardavo dallo specchietto retrovisore, dietro di noi, in coda su quella stradina verso Opogodò, un lungo corteo di macchine, tante da non riuscire a vederne la fine. Per assistere al funerale si era mossa l’intera regione.
Giunti alla chiesa decisi di celebrare la funzione non all’interno della struttura, ma fuori, nel cortile davanti alla cappella. Aiutato dal capo religioso del paese, il laico José Hertrudis, preparai tutto il necessario e, preso il megafono, iniziai il mio discorso.
Davanti a me, centinaia di persone, potevo scorgere l’odio nei loro occhi e sentire il peso di un’aria colma di tensione e risentimento. “Sono qui quest’oggi di fronte a voi e di fronte alla triste sorte toccata al nostro fratello.
Chi di noi ha il coraggio di entrare in chiesa in questo momento? Chi sente di riuscire a portare se stesso nella casa del Signore? Io no. Non ne sono degno, poiché in tutti questi anni passati insieme non sono riuscito a farvi capire che la violenza non è il cammino, non è la soluzione. Guardiamoci dentro: quali sono i vostri sentimenti in questo momento? E’ con l’odio nel cuore che ci presentiamo a Dio? E’ l’odio che ci ha portato qui oggi!
Prima di iniziare questa funzione chiediamo perdono; io, per il mio fallimento e voi, per questi sentimenti che vi annebbiano la mente e offuscano la bontà del vostro animo.
Oggi chiuderò questa chiesa – continuai indicando l’edificio alle mie spalle – e così la lascerò per l’intera settimana, fino alla prossima domenica. Allora la riaprirò e aspetterò, per celebrare la messa alle 9,30, chiunque di voi abbia deciso di eliminare l’odio dal proprio cuore”. Il silenzio sembrava irreale, nessuno osò proferir parola, ognuno assorto nei propri pensieri.
Conclusi la funzione e li lasciai a riflettere su ciò che avevo detto loro. Il giorno seguente mi precipitai letteralmente fino a Medellìn (sede del vicariato), per parlare con il vescovo. Non avevo infatti richiesto alcun permesso per permettermi di prendere una decisione simile, nessun sacerdote aveva mai osato chiudere una chiesa prima, nemmeno in caso di calamità naturale.
La fede è vissuta con devozione e amore autentico, la partecipazione ai rituali religiosi assidua e costante, chiudere una chiesa in quei territori rappresentava compiere un vero e proprio gesto di sfida verso le regole del posto.
“Monsignore!” dissi nervoso al vescovo non appena lo vidi, lui mi guardò di sottecchi
“Cos’hai fatto?”.
Stranamente fu la prima frase che pensò di dirmi … “Ho dichiarato chiusa la chiesa di Opogodò”. La notizia dell’omicidio e della difficile situazione del paese avevano già fatto il giro dell’intera regione e ovviamente anche il vescovo ne era a conoscenza. “Come mai hai preso questa decisione?”.
Un gruppo di giovani sacerdoti assisteva curioso alla scena. “Non potevo chiedere il permesso prima e ho pensato di tenerla chiusa fino a quando non avremmo compiuto un atto di riparazione, domenica prossima”.
Il vescovo non mi rispose, si girò verso i novizi e sornione disse loro: “Allora, avete capito come si fa?!”
La domenica seguente trovai la chiesa gremita di gente, l’intera comunità era presente e potei scorgere fra i presenti il gruppo di Cimarrònes.
Li guardai negli occhi al momento della predica.
“E’ molto facile giudicare e condannare. Ciò che è avvenuto è gravissimo e no, non doveva accadere, ma è capitato. Chi ha iniziato la rissa? Di chi è la colpa? In questo momento siamo al cospetto di Dio e ciascuno di noi è colpevole per quello che è accaduto all’interno della nostra comunità. Abbiamo permesso che l’interesse economico e i conflitti sociali ci aizzassero l’uno contro l’altro – continuai – quando, invece, sono anni che lavoriamo insieme e ci vogliamo bene. Conosco i sentimenti nei vostri cuori e so che volete rimediare. Li vidi chinare il capo e tenere gli occhi bassi. La rivolta era scongiurata.
“E credi di avere la risposta pronta per ogni domanda che ti faranno, credi che basti seguire la strada giusta, quella che conosci e saprai cosa dire, ma non è così, ascoltare è il grande segreto. Se si è pronti a cogliere le parole intorno a noi, allora capiamo che quella risposta già preconfezionata, preparata nella nostra mente ancor prima di sentire la domanda, non serve più, la comunicazione più vera e diretta parte dalla realtà.
La verità è che ho imparato ad essere uomo, cristiano e sacerdote in quelle foreste, poiché lì ho compreso di non sapere nulla. Perché quando tutto si ha da imparare, quando la vita, la tua formazione, la tua cultura non servono ad affrontare un mondo in cui tutto è diverso, allora capisci che se vuoi comunicare non puoi partire da te stesso, devi partire dagli altri.” Dal capitolo – “La voce del silenzio”.
Secondo me è un libro della non violenza, della pace, evangelizzazione attraverso la comunicazione
Italia – Colombia
La vita di Don Gervasio Fornara missionario, giornalista, salesiano nelle foreste della Colombia – il libro intervista di <Un missionario in canoa>
http://www.realpress.it info@realpress.it Direttore Responsabile Veronica Iannotti
Secondo – Martiri ITALIANI in America Latina, martiri della fede oggi
Alla pagina 11 c’è il nome del Padre COSME SPESSOTTO – il video è per la SUA VITA, SUO MARTIRIO