Domenico Rea
letteratura onestà intellettuale scrittore

LETTERA aperta alla Signora Lucia Rea

LETTERA aperta alla Signora Lucia Rea, figlia di Domenico Rea, postfazione – Il manuale del romanziere di Giampaolo Rugarli – un TESTAMENTO culturale

Giampaolo Rugarli

Olevano Romano, marzo 1998

Leggevo questo saggio un po’ per volta, santa onestà intellettuale, ma il finale diventa un TESTAMENTO per generazioni future. Anche se riferito alla figlia di Domenico Rea, Signora Lucia Rea – è rivolta ad ogni futuro, presunto, aspirante scrittore che abbia il domicilio al nord, sud, est, ovest di qualsiasi stato al mondo. Vale per tutti a prescindere. L’onestà intellettuale è perla rarissima nel mondo della letteratura e parliamoci chiaro, non è vero per nulla che l’umanità non ha voglia di leggere, ossia – è vero che l’umanità è diventata allergica alle sciochezze, a cose non vere, all’arte del Mago Merlino, persuadere …

Non mi sentivo di fare la solita fotocopia, volevo proprio trascrivere parola per parola, perché è un testamento per il lettore, autore e qualsiasi casa editrice. Un parlare dal cuore e, chi parla è veramente alla conoscenza ed è autorevole nel suo campo. Vale la pena entrarci dentro, mancano autori di questo calibro a livello mondiale, spero che la curiosità non manchi mai per conoscere SCRITTORI puro sangue.

https://it.wikipedia.org/wiki/Giampaolo_Rugarli

Giampaolo Rugarli (Napoli, 5 dicembre 1932 – Olevano Romano, 2 dicembre 2014) è stato uno scrittore italiano.

Lettera aperta alla signora Lucia Rea, figlia di Domenico Rea

Cara e Gentile Signora,

il nostro recente incontro e alcune sue amare riflessioni mi offrono l’opportunità di scriverle poche cose: alcune di ordine generale, altre di carattere specifico, intese a ricordare suo Padre.

Nel ottobre del 1993 Anabasi stampò Il manuale del romanziere che adesso viene riproposto: il libro ebbe una piccola tiratura e una circolazione iniziatica, sparì prestissimo dalle librerie. L’attuale riedizione della Marsilio dunque può essere considerata una prima edizione. O quasi.

Ma è passato del tempo: più di cinque anni che risultano a partire dal 1993, data di pubblicazione, e infatti il libro fu scritto nel biennio 1991-92, sorvolando sulla circostanza che utilizzai pure materiali elaborati, precedentemente (per esempio qualche articolo apparso sul Corriere della Sera). A occhio e croce, sono trascorsi sette/otto anni dalla prima stesura del Manuale ad oggi: un tempo lunghissimo, perché nel frattempo vi è stata una imponente proliferazione di opere dedicate alla cosiddetta scrittura creativa. In Italia e tra gli autori italiani, credo di essere stato il primo o uno dei primi a dedicare un libro all’argomento e a trattare di scrittura creativa in modo organizzato e sistematico (ma è doveroso ricordare che, già da molti anni, Giuseppe Pontiggia teneva con successo apprezzati corsi di scrittura creativa).

L’alluvione di testi rivolti a indottrinare gli aspiranti scrittori eccita la mia vanità: e invero, al principio degli anni novanta, mai avrei immaginato che si sarebbe formata una ricca bibliografia, come risulta dal Quaderno Panta, Scrittura creativa, Bompiani, novembre 1997, a cura di Laura Lepri, o che il <Corriere della Sera>, (l’iniziativa è di questi giorni) avrebbe offerto in supplemento una serie di dispense intitolate Scrivere (Corso di scrittura creativa: il metodo, le tecniche, gli esercizi). Le dispense del Corriere della Sera, alla fine, costituiranno un corpus di undici volumi: grosso modo, avranno le dimensioni di una enciclopedia.

Questo gigantismo non deve stupire. Nel citato Quaderno Panta, Laura Lepri presenta ventidue maestri di scrittura creativa, menzionando un’altra quindicina di insegnanti che in vari modi spezzano il pane della loro scienza <romanzotologica> (a dirla con Morselli). Attribuendo a ogni docente una media di una trentina di allievi, consegue che ogni anno più o meno milleduecento scrittori dilettanti tentano il passaggio al professionismo: nell’arco di un decennio, tornano dodicimila nuovi scrittori o sedicenti scrittori.

Ebbene: le difficoltà della carta stampata sono note, e quindi, a mio avviso, si sta alimentando una colossale fabbrica di illusioni, a meno che quasi tutto il fenomeno venga ricondotto alle Università e alle scuole, secondo il saggio auspicio formulato dalla stessa Laura Lepri. Purtroppo è impresa criminale alimentare la paranoia dell’esercito sempre folto dei frustrati, degli insoddisfatti, degli infelici, dei visionari ecc. – e l’impresa è tanto più criminale, se portata avanti contro il corrispettivo di una mercede.

Cara e Gentile Signora, mi provo a immaginare la faccia di Suo padre di fronte alla carica degli aspiranti scrittori, in un mondo che sembra aver bisogno di tutto fuorché di romanzi, specie di romanzi italiani: don Mimì sapeva essere pungente e sboccato, avrebbe sepolto tutto sotto una battuta colorita. O forse avrebbe ceduto a un senso di pena per malinconica folla, desiderosa di imparare il mestiere che non esiste più. Non si rammendano le calze e non si leggono i romanzi, il problema è tutto qui.

Nel panorama descritto, la riedizione del Manuale del romanziere mi ha posto un problema di coscienza: il libro non rischiava di portare un ulteriore contributo alla fiera delle illusioni? Ho optato per la ripubblicazione, poiché mio proponimento è indurre gli aspiranti romanzieri <a respingere la tentazione di scrivere romanzi, cedendo invece a quella di leggerli>. Inoltre il Manuale solleva grossi dubbi sul futuro della parola scritta, e quindi della narrazione espressa in parole scritte: i miei dubbi sono aumentati, e cominciano a investire anche la parola detta, la parola parlata. La dilagante orgia di oralità, con la televisione che si presta a far da cattedra a ogni imbecille in vena di esibizionismi, lo strepito che quotidianamente ci assorda è indizio di regressione, di imbarbarimento.

I concetti di cui sopra sono esposti nelle ultime pagine del Manuale, le cui tesi devo confermare nonostante il tempo trascorso. (Rinnego solo un giudizio inutilmente aspro sui romanzi di Raffaele Crovi; il mio malumore fu provocato dallo stesso Crovi, e lui sa perché). Confermo anche le riserve su alcuni critici e su quasi tutti i giovani autori: almeno per adesso questi ultimi non hanno fornito prove memorabili, quasi sempre hanno adottato un linguaggio di cinquecento/mille parole, e non di più. D’altronde, il linguaggio basico è accessibile a tutti, perciò è condizione di successo: ecco una stortura sulla quale le scuole di scrittura creativa dovranno riflettere. La stampa sembra aver abbandonato la letteratura al suo destino: non sceglie e non suggerisce, si ridesta quando dietro il libro c’è un personaggio che possa colpire la fantasia della gente. L’editoria deve preoccuparsi del conto economico e, coi tempi che corrono, non è un piccolo impiccio. Il libro, misteriosa entità che dovrebbe restituire il mondo o almeno un mondo, a poco a poco viene sostituito da ciò che vorrei chiamare prodotto editoriale, entità niente affatto misteriosa che del libro ha solo la parvenza, mentre invece compendia la Weltanschaung dei giornali, delle riviste illustrate, della televisione e del cattivo cinema. L’imperativo categorico è: blandire, vellicare. Ciò significa che il prodotto editoriale, per esistere, deve essere ovvio: una società che trasforma Beppe Lanzetta in un maître à penser e che ospita Beppe Lanzetta sulla prima pagina dei quotidiani, una società così non ha più niente da dire o da fare. Deve solo aspettare Unni, Goti, Longobardi e altri barbari assortiti che, dopo aver messo tutto a ferro e fuoco (speriamo metaforicamente), si accingano alla edificazione del nuovo.

… Al tempo della prima edizione di questo Manuale, oltre a suo Padre erano ancora vivi Dario Bellezza, Gesualdo Bufalino, Italo Alghiero Chiusano, Anna Maria Ortense … Era ancora viva Moana Pozzi cui il libro fa qualche riferimento: la scomparsa della Pozzi era la meno prevedibile, per la giovane età e per l’ardore delle Sue esibizioni. Era scandalosa, ma sapere che una donna così giovane non c’è più è scandaloso due volte. MenzionarLa insieme a esponenti delle patrie lettere non dovrebbe disturbar: e basti rammentare La livella, saggia sortita poetica di Antonio de Curtis, in arte Totò. Sono sicuro, Cara Signora Lucia, che suo Padre non si sarebbe addolorato di trovarsi accanto a una bella donna: don Mimì era un uomo esuberante e pietoso, era consapevole che il comune destino è cadere in battaglia, non importa in quale campo.

Nel mio Manuale è scritto che Ritratto di maggio è un capolavoro.

Qui vorrei aggiungere che Domenico Rea è un grande scrittore, e non perché dei morti si dice sempre bene: nessuno meglio di Lui seppe distinguere tra un libro e un prodotto editoriale, perciò i Suoi libri ci restituiscono il mondo. Ci aiutano a comprendere, a compatire, ad amare. Rea è corale: il meglio di sé lo esprime se parla della gente come quei registi cinematografici che eccellono nelle scene di massa quando migliaia e migliaia di comparse invadono la scena. Il personaggio centrale della narrativa di Rea è la folla: una folla brulicante, che ha smesso pudori o ritegni, che va al cuore delle cose. Il cibo, la tana, il sesso. Suo Padre è il poeta dell’umana animalità, quanto dire della beatitudine e della dannazione, ed è poeta sollecito, partecipe, misericordioso.

Mi illudo (e qualcun altro con me) che il versante corporeo, talvolta ferino, non esaurisca la condizione umana: ma è pur vero che tale versante è preminente, rivelatore, eterno e così non riesco a tacere il mio stupore di fronte a tanta letteratura contemporanea che si esonera dalla verità delle cose e si smarrisce nei meandri di una incomprensibile cerebralità. E’ appena il caso di precisare che verità delle cose vuol dire verità del sentimento di chi scrive: come appare in ogni pagina di Domenico Rea.

Contro l’oblio si può far poco. Tanto più che esso investe non questo o quello scrittore, bensì la scrittura nel suo complesso, la scrittura come strumento di interpretazione del reale. Naturalmente è giusto raccomandare a un Editore di ripubblicare tutto (o quasi tutto) Rea: Egli non è meno meritevole di altri Autori cui è stato accordato questo privilegio. E’ una esortazione che rivolgo al mio Editore e anche alla Mondadori che, in due collane gloriose, <La Medusa degli Italiani> e <I Grandi Narratori Italiani>, pubblicò il meglio di Rea. Comunque non si tratta di appuntare una medaglia d’oro alla memoria: si tratta invece di recuperare opere il cui valore trascende quello di ogni testo di scrittura creativa.

Al termine di un finto itinerario didattico, la lettura di Domenico Rea è il solo esercizio che oso raccomandare: si intenderà che la <creatività> non si trametterà, che è dono  elargito non so se da Dio o dal demonio. Si intenderà che un bravo Lettore è mille volte meglio di un cattivo scrittore anche perché, alla mensa dell’arte, il primo troverà sempre nutrimento, mentre il secondo non riuscirà nemmeno ad accedere.

Suo Padre, Gentile Signora Lucia, fu un artista: ebbe un talento naturale, un qualche cosa che a scuola non si impara e non si insegna. E del resto Suo padre, anche se divorò intere biblioteche, a scuola non ci andò molto: non dico a quella di creative writing, ma a quella d’obligo, imposta dalle leggi dello Stato a ogni ragazzo. Rea diventò se stesso senza l’insegnamento di Maestri sussiegosi (e barbosi); vagò per il mondo, fece molti mestieri, si guardò in giro; finì per dimostrare la inutilità e forse la stupidità di ogni cattedra. Per questa ragione, mi sembra giusto proporlo ad esempio.

Un saluto affettuoso dal suo,

Giampaolo Rugarli

Olevano Romano, marzo 1998

Una letteratura che si nutra solo di parole, e che si senta svincolata dalla realtà, deve essere giudicata con diffidenza: se raccontare fosse solo  nient’altro che giocare con le parole, in una sorta di scarabeo più difficile e più raffinato, si baratterebbe una opinabile eleganza contro un sicuro impoverimento della conoscenza.

L’analisi storica avverte che i periodi di prevalenza della forma sul contenuto sono stati contrassegnati da situazioni di crisi se non forse di decadimento; dimenticare la strumentalità della parola, facendone una sorta di bene in sé, denuncia indifferenza o impotenza di fronte al reale, alla vita, alla nostra condizione di uomini.

Invece un romanziere, che si preoccupi di avere un contenuto, è costretto a riflettere sul mondo in cui vive e sulle credenze filosofico-religiose vigenti al tempo in cui scrive: la riflessione non deve guidarlo alla scoperta di una qualche verità (non è questo il compito dei romanzieri), ma deve operare all’interno del racconto, in modo che esso restituisca un sentimento o, se si preferisce l’enunciazione di Bachtin, un momento etico-conoscitivo. La presenza di un serio contenuto permette di confermare la risposta forse più ambiziosa al quesito concernente il perché, la ragione d’essere del romanzo: il quale, se vuol essere investigazione nella giungla dell’anima, non può prescindere da coordinate desumibili dalla realtà esteriore né può estrarre tali coordinate da un puro mondo di segni. A maggior ragione ciò è vero quando il romanzo non indaghi soltanto nel chiuso dei cuori, ma vada a frugare tra i vari casi dell’umanità.

E’ frequente osservazione che la letteratura si autoalimenta, ossia trova in se stessa una parte più o meno generosa dei propri contenuti: si pensi a tutte le ramificazioni che sono spuntate dal tronco di Kafka.

PREMI – GIAMPAOLO RUGARLI

Domenico Rea (Napoli, 8 settembre 1921 – Napoli, 26 gennaio 1994) è stato uno scrittore e giornalista italiano.

OPERE – DOMENICO REA
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Dall’intervista di Corrado Piancastelli a Domenico Rea

Dall’intervista di Corrado Piancastelli a Domenico Rea

La plebe può ancora suggerire qualcosa a uno scrittore?

Ho già scritto a questo proposito un saggio intitolato Cummeo al bowling variamente interpretato e giudicato. La plebe come espressione di miseria esiste ancora e le sue condizioni potrebbero persino peggiorare. Ma come mentalità, spirito, comportamento e aspirazioni le cose sono profondamente cambiate. I plebei napoletani, nella sostanza un popolo oppresso, tendono a uscire dai vicoli e dai bassi. Questo desiderio ha comportato una rottura completa e definitiva con le vecchie suggestioni, fatalismo e rassegnazione. Ma il passaggio, secondo me, non sta avvenendo sul ponte della borghesia, ma su quello della massa con una presa di coscienza pericolosamente consumistica. Quindi se la plebe come ricordo può sollecitare all’infinito l’immaginazione di uno scrittore come un corpo reale presente, con un suo rituale, eccetera, è divenuta qualcosa di ambiguo ed equivoco.

Come ti nacque l’idea di chiamare Nofi Nocera Inferiore?

A quindici anni, quando scrissi il mio primo racconto, mi venne fatto di scrivere, invece di «C’era una volta a Nocera Inferiore… », «C’era una volta a Nofi… ». Non saprei dire le ragioni motivazionali per cui si verificò questa sostituzione. Forse per non avvertire il peso di un nome di città così lungo e composto. Ma c’è un’altra versione di cui mi compiaccio. Nofi era il nome di un regno dall’orizzonte illimitato. Nocera un’identità storica, la rivale della Pompei romana, una terra di conquista di Annibale, una campagna ubertosissima ben segnalata da Luigi Einaudi. Nofi era invece una terra mia in cui qualche volta i protagonisti rassomigliavano a quelli realmente incontrati, conosciuti e frequentati di Nocera Inferiore.

Perché Le formicole rosse non hanno avuto un seguito?

Si tratta di un’amara e triste «istoria». A dieci anni, durante le vacanze dalla quinta elementare alla prima complementare, scrissi una tragedia: Il Bruto, che fu regolarmente recitata, sullo spiazzo di un cortile all’interno di una fabbrica di pomodori conservati e sul palcoscenico di un teatrino di cartone, da alcuni miei compagni di scuola. La seconda «pièce» la scrissi nel 1947, a via Ripamonti a Milano. Si intitolava Le formicole rosse. La scrissi in una notte. Il giorno seguente la lessi a uno degli alunni più colti d’Italia, Roberto Cantini. Alberto Mondadori volle che ne dessi lettura a un gruppo ristretto di amici e di intenditori nella sala della Galleria Cairola. Fu una serata memorabile. Remigio Paone mi spedì un telegramma di due pagine. La rappresentazione sembrava imminente. Ma non se ne fece nulla. Gennaro Magliulo, regista napoletano, ne curò una recita a voce in una stanza del Circolo della Stampa di Napoli; Raffaele La Capria, una riduzione radiofonica. Una trasmissione integrale fu messa in onda dalla Radiodiffusion Française e «Le Monde», se ben ricordo, ne parlò bene. Ma quanto a una vera e propria rappresentazione, niente da fare. Soltanto nel dicembre del 1958 i giovani della Compagnia Teatrale Italiana, diretta da Paolo de Grande, ebbero il coraggio di metterla in scena con mezzi limitatissimi al Millimetro (cento posti) di Roma. Ebbe buona stampa. Proprio mentre rispondo alle tue domande Gennaro Magliulo ne sta preparando una edizione per la RAI, con Luisa Conte, Nino Taranto, e altri bravissimi attori professionisti. In seguito, sollecitato da Franco Enriquez, quando fu di stanza a Napoli, scrissi un Re Mida. L’Enriquez venne ad ascoltarlo a casa insieme con la Moriconi. Ne disse un bene enorme, ma non se ne fece nulla lo stesso. Purtroppo ho smarrito il copione del Re Mida e non so che cosa darei per riaverne il dattiloscritto. Liquefatto. Era una commedia in tre atti, scritta in un linguaggio barocco-ridondante, alla maniera delle traduzioni ottocentesche dello Shakespeare. Un’amara istoria, dicevo, che insegna a non scrivere di teatro in Italia se non si fa parte del clan, se non ci si piega a scrivere commedie sulla misura del capocomico e, soprattutto, del regista, impotente per natura e quindi esoso.

[NdR: Il manoscritto del Re Mida, ritrovato da Gennaro Magliulo nel 1978, è stato pubblicato dalla SEN nel 1979.]

Usi con quasi assoluta indifferenza sia la formula narrativa che quella saggistica. Nei due aspetti più felici l’una vale quasi l’altra sia per la resa linguistica che strutturale. Ritieni che sia più importante l’una o l’altra? Pensi che un saggio-racconto come il tuo possa rappresentare una salvezza per la narrativa senza cadere nel moralismo di maniera?

Ne avessi la possibilità scriverei soltanto saggi alla maniera di Lytton Strachey, di Aldous Huxley, di alcuni magistrali campioni di Stefan Zweig. La più grande letteratura contemporanea è di tipo saggistico e alcuni saggisti sono assai più resistenti e consistenti di una miriade di narratori.

Quali testi salveresti della letteratura napoletana?

Le ricordanze del Settembrini, la Storia della letteratura italiana del De Sanctis, I canovacci del teatro dell’arte del Pulcinella sei e settecentesco, Il Pentamerone del Basile, le prose dell’Imbriani, il testo del Guarracino e tutto Mastriani, qualche punta di diamante del Viviani. Il resto è assai più vicino alla letteratura che all’interpretazione di un popolo. Vi è più Napoli in Croce, nella Storia di una capitale di Doria, in molti scritti di Giuseppe Galasso, che in tutta la Serao o in Marotta, che furono scrittori di gran conto.

Corrado Piancastelli, Domenico Rea, «Il Castoro», n. 98, febbraio 1975

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